La madre di tutte le discriminazioni

Disclaimer, si fa per dire.

Non mi sento responsabile di quanto, di seguito, scriverò. Si tratta di una specie di brainstorming, fuori contesto, tra me, me e ancora me, nella speranza che altri si aggiungano. Obiettivo: falsificare ciò che penso, correggerlo per ulteriormente falsificare i risultati della correzione, e alla via così. Se qualcuno mi aiuta in questo sarà utile e gradito. 

Eliza Feru, 6 gennaio 2025, primo femminicidio dell’anno. Maria Porumbescu, 14 gennaio, secondo femminicidio dell’anno.

Red bench symbol against violence against women, Lombardy, Italy, 2024 – Written in Italian
(Mi hanno sepolto, ma quello che non sanno, é che io sono un seme. Fonte of Alda Merini)

Leggo (pure se i numeri ballano) che le donne vittime di femminicidio in Italia sono state, nel 2024, 109 contro le 120 del 2023. Ne risulta una fluttuazione, mediamente in calo, che si colloca su 3 decimali scarsi (una media di 3,01 donne assassinate contro una media di 3,3): vale a dire che, negli ultimi due anni, in Italia, è morta una donna, vittima di violenza di genere, ogni tre giorni, ora più ora meno. 

Difficile parlare, per ora, di una diminuzione. E così, anche per questo nuovo anno, ci stiamo preparando a contare. 

Nel mondo non (cosiddetto) occidentale (vale a dire nella maggior parte del mondo) le cose vanno peggio. Una ricerca ONU del 2017 sul femminicidio nel mondo (un po’ datata, per cui tralascio i numeri) riporta: “ (…) aumenta il tasso di donne uccise in casa (…) assassinate da familiari o partner (…). La casa si conferma il luogo più pericoloso per le donne.“

In merito al nostro oggi, il 30 dicembre 2024, Il Post titolava:” I talebani hanno vietato di costruire finestre da cui si possano intravedere le donne”.

Non servono commenti; i fatti sono noti. Possiamo tuttavia assumere, quali confini del problema, due estremi: Italia e Afghanistan. Nel mezzo ci sta la vita delle donne nel mondo intero a documentare, a diversi livelli di gravità, la presenza di un identico paradigma sotteso alla struttura delle nostre società, tutte; in cui si dimostra l’invarianza del paradigma stesso. Mettiamola così: mentre persino la guerra (anche quando l’abbiamo chiamata <mondiale>) è sempre stata, finora, diciamo locale, di un gruppo contro un altro gruppo, e intervallata da periodi di pace, e così pure la violenza causata da discriminazione verso un gruppo minoritario da parte di un altro gruppo maggioritario, per motivazioni etniche, culturali, sociali, religiose, di orientamento sessuale, ecc., la <guerra> contro le donne, la pretesa di un diritto maschile alla violenza sulle donne e alla loro sottomissione accomuna e ha accomunato l’intero genere umano, in tutto il mondo e in ogni tempo.

Occorrerà precisare: con il consenso di tutti, donne e uomini, perché “la legge del padre” trova, tra i propri adepti, anche, e sotto taluni aspetti primariamente, donne.

In forza di tale paradigma, le morti femminili per causa di genere rappresentano la punta di un iceberg che sottende l’esistenza massiva di una casistica di violenza, alla cui base opera una stessa costante; al di là delle variabili contingenti e nei diversi contesti storico-culturali-religiosi: la struttura familiare patrilineare.

Famiglia

In ogni parte del mondo, in ogni tempo storico, la posizione del femminile, in gradi diversi, è stata sottomessa ad un modello di struttura familiare che lega e confina la donna all’interno dei compiti riproduttivi e di cura. 

Pare che al mondo ci siano due specie di umani, due mondi: maschile e femminile; ognuno con le proprie regole sociali e i propri vincoli. 

In realtà, c’è un solo mondo, quello maschile, in cui la posizione della donna era ed è assimilata, nel migliore dei casi, a quella della minorenne a vita. Alla donna-madre non veniva (e non viene ancora) riconosciuta neppure la potestà sui figli: il figlio, e la potestà su moglie e figli, apparteneva (e appartiene) al padre. In Italia è stato così fino al 1975.  Nella forse maggior parte del mondo è ancora così.

Tralasciando gli aspetti giuridici (e ovviamente non si può farlo), il tutto era ritenuto, ed era, funzionale al sistema socio-economico precedente le rivoluzioni industriali. 

Famiglia

Oggi il modello tradizionale di famiglia sopravvive alla propria funzione, anche là dove è giuridicamente mutato, dentro un sistema economico mondiale in cui la preminenza, e le regole, della produzione lo hanno di fatto reso disfunzionale, desueto nei fatti, salvo imitazioni parodistiche, e in molti, troppi contesti, tragiche. Non casualmente, così come il modello ottocentesco degli Stati sovrani in cui ha rappresentato l’istituzione di base; con il supporto delle diverse religioni: Dio, Patria, Famiglia.

Famiglia

Oggi, il sistema economico mondiale, trasversale alle diverse forme e ai confini degli Stati, non consente più l’esistenza di una struttura familiare fondata sulla gestione al femminile dei bisogni di cura; indipendentemente, dunque, dal diritto di ogni persona, anche là dove la legge lo riconosca, a realizzarsi individualmente senza distinzioni di sesso e di genere; dal diritto di ogni persona a realizzare un proprio progetto di vita secondo le proprie capacità e i propri talenti; a studiare, a lavorare, a vivere la socialità, e in essa una sessualità non vincolata a venir espressa unicamente in una imposta forma binaria (nel preteso rispetto, culturale e dunque interiorizzato, di uno statuto familiare vincolato alla riproduzione e alla legge del padre).

Tutto questo rende evidente come il superamento di uno stato di minorità del femminile, ancora presente nel mondo sul piano giuridico, e che comunque sopravvive ovunque sul piano culturale, non possa realizzarsi “a pezzetti”: in uno Stato sì, nell’altro no, altrove un po’ di questo un po’ di quello. 

Non può stupire se, ovunque, le “conquiste” femminili sono costantemente a rischio, in quanto vincolate a un modello familiare inteso come <Istituzione> fondamentale degli ordinamenti dello Stato, basato su ottocenteschi “sacri confini” di cui, nei fatti, la realtà socio-economica mondiale, globale e interconnessa, ha azzerato il significato.

Nel mentre, la famiglia reale corrisponde, oggi, per le giovani generazioni (e dunque nella realtà), ad una scelta di coppia: non necessariamente a vita; che si confronta liberamente con il desiderio di avere figli con cui costituire una comunità affettiva, secondo modelli capaci di riconoscere i bisogni e le identità individuali; e che dunque non può (più) costituire un’Istituzione, fondante l’organizzazione sociale e del lavoro. 

La famiglia costituisce, oggi, una scelta che ogni singolo e ogni coppia realizza, se vuole, a modo suo. 

Occorrerà dunque sfatare, meglio prima che poi, un modello culturale interiorizzato come “naturale”; e insieme, il correlato modello degli Stati Sovrani, ognuno con la propria religione e i propri confini, che dovrebbero contenere l’identità di una popolazione “altra” dai vicini di casa; “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor” – innanzitutto “d’arme”: mi scuserà il buon Manzoni, non è stata colpa sua: le cose stavano così.

Occorrerà oggi riconoscere, nel modello dello Stato Sovrano, il fattore che ha visto l’Occidente disgregare le culture e le identità di molti popoli. Valga per tutti la storia di molti Stati africani, dai falsi confini assurdamente rettilinei che definiscono comunità fasulle; costruite sulla carta da terzi, devastati da guerre intestine quale esito di un colonialismo che, andandosene (?), ha imposto le proprie categorie a popolazioni di cui ha silenziato culture e identità millenarie: il tutto, oltre che per precisi interessi economici, in forza del ritenere impossibili (incivili?) organizzazioni statuali diverse dalle proprie.  

La condizione delle donne nel mondo sta dentro tutto questo. E ci sta con gli uomini: figli, compagni di vita, padri, fratelli, amici e amanti che pagano a loro volta caro; in modo diverso, addirittura senza accorgersene, ma pagano. 

Le donne: costituiscono metà della popolazione umana che per la maggior parte (e non mi si dica che non è così), difende, nei fatti, il modello – Dio, Patria, Famiglia – fondativo di una cultura che le condanna; e si impegna ad educare figli e figlie a sostenerlo; e trasmetterlo; che anche lotta, certo, per diritti sacrosanti ma parziali, spezzettati, che come tali non potranno (non dovranno?) modificare la struttura fondativa delle nostre società.

Ciò non potrà accadere finché la discriminazione civile, sociale ed economica delle donne non verrà riconosciuta come la madre di tutte le discriminazioni: fondamento, modello, del diritto, strumentale, a operare ogni discriminazione settoriale: dall’antisemitismo, al razzismo, ai vari abilismi ecc., ad libitum.

Non ne usciremo mai lottando per obiettivi a pezzetti, conquistando un diritto qua e un diritto là; localmente, in uno Stato sì in un altro no. Battaglie vinte, certo; importanti, certo: mentre la guerra continua.  

La Madre di tutte le discriminazioni, da sempre, nel mondo intero, regola-base dei nostri sistemi di convivenza, equivale ad istituire la discriminazione stessa come modello-base dei rapporti che sostengono i sistemi istituzionali; e da lì i rapporti familiari e i rapporti di genere, pur nella loro diversità, pur attuati con gradi diversi di pervasività del modello. 

Contro la discriminazione del femminile dovremmo lottare tutti e tutte, perché da essa nasce ogni altra discriminazione, comprese quelle non ancora inventate; da essa (in quanto discriminazione universale versus discriminazioni settoriali) inizia il modello relazionale che poi non importa contro chi verrà esercitato, va bene un qualunque gruppo, o persona, “al bisogno”. Ciò che importa è il modello, il paradigma di base che regola il nostro essere una società: che amerebbe vivere tranquilla, nella convivenza tra esseri umani e con le altre specie, facendo, della propria vita affettiva, della propria sessualità, ciò che vuole, all’interno di rapporti basati sul consenso, basati semplicemente sul rispetto dell’altro. E, perché no, sulla curiosità per l’altro, interessante da incontrare.

Sono certa solamente di sbagliare (senza esserne convinta): come ognuno, amo il mio pensiero. Ne amo tuttavia e soprattutto la provvisorietà – altrimenti scatterebbe un: e poi? Non dovrò pensare più? Il papà sistema sociale si sarà fatto carico per me di tutto? 

So per certo, questo sì, di non avere ricette da proporre per uscirne. 

So per certo, questo sì, che ne dobbiamo uscire.