“Non ci sto più” – al maschile

Chi sono i maschi della nostra specie?  

Riprendendo il tema della discriminazione del femminile e della struttura patriarcale delle nostre società che ne sta alla base, a partire dalla istituzione familiare (qui); in un mondo dove siamo tutti tanto vicini che di più non si può, impegnati a scannarci tra gruppo e gruppo; mentre, anche là dove non ci si scanna, si discriminano e si perseguitano minoranze varie (per dire, in parti dell’Africa, sono discriminati gli albini), mentre tutto questo avviene, in ogni parte del nostro mondo, e in ogni tempo storico si sono discriminate e si discriminano, si perseguitano e si uccidono le donne. In non piccola parte con il loro consenso.

NOI E LORO

Noi donne siamo le madri, sorelle, compagne di vita e amiche. Donne e uomini non possono, né sanno, fare a meno le une dagli altri e non solo per desiderio sessuale, ma proprio per bisogno di reciprocità. Non esiste né donna né uomo che non siano, o non siano stati, amati dall’una e dall’altro. 

Condividiamo, fin dall’infanzia, giochi, esperienze, la scoperta e l’esperienza della sessualità (condivisa, attraverso l’esperienza dell’altra/o e con l’altra/o) e con la scoperta del genere cui sperimenteremo di appartenere. Condividiamo vite di coppia, condividiamo amicizia, lavoro, solidarietà, vicinanze multiple e inscindibili. Condividiamo amore e responsabilità verso i figli.

Nel formare una famiglia, che rappresenta la forma di una “consanguineità culturale”, non ci sarà mai un membro della coppia che vince mentre l’altro perde. Vinceremo insieme o perderemo insieme. Vale per la coppia maschio-femmina così come vale per la coppia omosessuale, vale per la coppia amicale: vale per ogni possibile scelta in cui l’individuo si riconosca nella reciprocità.

Il modello familiare patriarcale, costituendo la forma di (quasi) ogni comunità umana, costituisce pure un ombrello sotto il quale la coppia, ogni coppia, replicherà i rapporti di potere previsti dal modello stesso.

E dunque? Inevitabile: se in una società di stampo patriarcale le donne “perdono” – ma potremmo benissimo dire che “un elemento della coppia, omologato al femminile”, perde – inevitabilmente perderà anche l’altro, la cui vita sarà caricata di tutto ciò in cui non potrà avere l’aiuto di una compagna/compagno – madre, sorella, partner paritetico con cui realizzare un progetto di vita e di procreazione solidale (che non è “solo” avere figli). 

Ora: il modello patriarcale che segna di diritto ma, anche dove non sia più così, di fatto, la vita di ognuno e ognuna di noi, quali costi, in nome di una (falsissima) supremazia, tale modello impone al maschio in ogni parte del mondo?

E perché mai i maschi della specie non se ne accorgono, ritenendosi invece titolari di un “modello vincente”?

Quali ruoli sono imposti al maschio “dominante”?  

LA GUERRA

Nel nostro mondo – che, da sempre e al maschile, ha scelto la guerra come mezzo di soluzione dei conflitti tra popoli – vale a dire tra “comunità di famiglie culturalmente consanguinee che abitano un territorio” – sono i maschi ad andare in guerra: oggi e da sempre, molti popoli hanno avuto donne guerriere e tuttavia tale fatto è sempre stato considerato particolare e anomalo. 

Uomini in guerra

Nella società patriarcale era ed è compito dell’uomo “la difesa” del territorio, dei beni, delle donne e dei bambini (vale a dire dei deboli per statuto) e, nota bene, il difendere questi ultimi dall’altro maschio, diciamo pure “non proprietario” del bene.

Una nazione “dichiara guerra” ad un’altra nazione ed ecco scattare la chiamata alle armi, la “coscrizione obbligatoria” non solo di chi ha scelto l’appartenenza alle Forze Armate come proprio lavoro bensì di tutti i giovani maschi.

Nell’orizzonte di vita del maschio, la guerra è sempre stata una concreta possibilità, vicina ad una certezza; e la morte, o l’invalidità per causa di guerra, una possibilità, statisticamente significativa, come tale apparentemente e disperatamente accettata da madri, padri di giovani adulti, sorelle, mogli.

Sola eccezione è (stato?) il fatto che tutto questo non sia avvenuto per le ultime tre generazioni “europee”, al prezzo di aver portato tale catastrofe in altre parti del mondo.

IL SOSTEGNO ECONOMICO E LA TUTELA DELLA FAMIGLIA

Inutile raccontarcela. Quando si parla di “famiglia tradizionale” si sottintende il modello che prevede un uomo-marito al lavoro, con una moglie e dei figli a suo carico, mettendo in conto che il lavoro casalingo della moglie possiede un indubbio valore economico, tuttavia non considerato come valore socialmente riconosciuto e retribuito.

Una logica “ferrea”, basata sul modello, ha sempre assimilato il marito a un “datore di lavoro” e, insieme, a un “padre” che, in quanto tale, si faceva carico del mantenimento, a diversi livelli, a seconda del proprio status, della moglie e dei figli, di cui era, a tutti gli effetti, tutore unico. 

Anche la chiamiamola remunerazione della moglie, di conseguenza, era dovuta in base al reddito del marito: se benestante o ricco, la moglie era, e spesso ancora è, remunerata attraverso uno stile di vita coerente con lo status sociale del marito; e il suo compito, in casa, consisteva nel dirigere “la servitù”; se moglie di un poveraccio, a basso reddito, costretta a vivere in due stanze con più figli, avrebbe lavorato come una mula disponendo di due vestiti (nel mio dialetto si diceva “un indosso e un in fosso”).

Nel mezzo, ci stavano e ci stanno tutte le gradazioni della vita del mondo reale; per lui e per lei; compreso ovviamente il (doppio) lavoro femminile al bisogno, e mal riconosciuto.

Difficile, dunque, definire i compiti di una “Casalinga”. Tuttavia essenziali.

Magari, prima o poi, parleremo del lavoro femminile di cura. Ora, in questo modello di famiglia (di comunità, nazione) che vita farà Lui?

Quando ci penso, non posso non chiedermi quale peso debba essere, per un uomo, il sapersi in dovere di sostenere economicamente moglie e figli, senza poter (teoricamente) contare su di un aiuto da parte della compagna. In caso di difficoltà economica, di disoccupazione, mentre lei e i figli mancheranno di una anche solo relativa sicurezza, se non (ma anche) dello stretto necessario, come potrà lui conservare la propria autostima, nel crollo di uno status sociale che travolgerà, con lui, e per sua “colpa”, moglie e figli?

Una donna  disoccupata non subisce il discredito sociale che patisce l’uomo. La donna mantiene il proprio compito nella gestione dei bisogni di cura familiare. A parità di condizioni (e di disperazione), l’uomo sentirà totalmente su di sé la squalifica del non aver saputo assicurare il dovuto benessere alla propria famiglia. 

Un marito disoccupato è disoccupato, e ha mancato al proprio compito.

Una donna disoccupata è casalinga.

Nel caso, poi, in cui la situazione veda la moglie al lavoro, magari anche qualificato, e a perdere il lavoro sia lui, il disastro sarà assicurato. A lui non verrà socialmente riconosciuta, di regola, una reciprocità per cui sia lui a occuparsi della famiglia e la moglie ad assicurare il reddito. 

Oggi, nella nostra Europa, ciò avviene, ma non è facile per l’uomo mantenere il necessario riconoscimento sociale, per quanto bravo cuoco sia, per quanto capace di svolgere adeguatamente i lavori di casa e, soprattutto, di assicurare l’educazione e la dovuta cura dei figli.

Quale sarà l’angoscia, la disistima di sé, il peso di uno status sociale carico di disconferme?

Ritornando al dovere maschile della guerra, ha una sua logica l’inesistenza di una chiamata alle armi della popolazione femminile, salvo per le donne che abbiano scelto, dove sia prevista tale possibilità, di fare il soldato per professione.

Quando tutti gli uomini giovani saranno al fronte, qualcuno dovrà pur far funzionare le fabbriche, il commercio, i trasporti, per non dire le scuole; produrre cibo, vestiario, e quant’altro per i soldati, per i bambini e, se ne avanza, per sé. Qualcuno dovrà far funzionare le fabbriche di armi.

D’improvviso le donne diventeranno capaci di sostituire gli uomini, salvo essere rimandate a casa a guerra finita, ad aggiustare, senza reddito, il recupero dell’istituto familiare.

Senonché, un dopoguerra non sarà disoccupazione solo per  le donne, obbligate al ritorno dentro casa: sarà disoccupazione e basta, anche per lui.

Difficile che l’autostima maschile non sprofondi; facile che il pover’uomo faccia ricorso (anche perché, entro certi limiti, comportamento purtroppo socialmente accettato) alla propria forza fisica, vera o supposta, e da lì alla violenza, sulla moglie, sui figli, possibilmente sostenuta dall’alcool e quant’altro. Che altra possibilità potrà vedere di fronte a sé, specialmente dopo aver imparato ad assassinare coetanei che non gli avevano fatto nulla, dopo aver imparato a uccidere legalmente donne e bambini. Davvero possiamo pensare che, da questa esperienza, ritornerà indenne? Chi tornerà a casa potrà ancora essere il bravo ragazzo che è partito?

Non si impara a diventare assassini senza conseguenze.

LA DISTANZA MASCHILE DAI FIGLI

Il modello della famiglia patriarcale ha (avuto, spero) un ulteriore grande costo: la distanza, prescritta, dai figli; come Padre, l’uomo era detentore della potestà su di loro, e dunque “un’autorità”, ma gli veniva negata la familiarità, la presenza al loro fianco; gli veniva negata buona parte della relazione affettiva, sicuramente nei confronti delle figlie, ma anche nei confronti del figli, da dover crescere “come maschi”: duri, forti, proibito piangere… e a seguire.

È un’esperienza che costringe a darsi dolore e a darlo ai figli: avendo sofferto, da bambini, il dolore della distanza dal padre, si ritroveranno obbligati a infliggere le stesse sofferenze ai propri figli: senza neppure saperlo; e tuttavia soffrendolo. 

Oggi, a casa nostra, le cose stanno cambiando, sono cambiate. I giovani padri rivendicano il loro ruolo. Lo assumono. 

Le nostre giovani generazioni dei padri stanno accudendo i figli, anche neonati, pannolini, pappe, coccole e quant’altro: è un fatto. Sarà dunque ben ora, per loro, di cominciare a pretendere “congedi genitoriali paritari” dal lavoro, da condividere tra padre e madre. Chiaro, in prevalenza i congedi saranno utilizzati dalle donne, ma la partita a proposito della supposta e falsa non convenienza per i datori di lavoro di assumere madri comincerà a ridursi: e farà bene anche ai bambini avere una madre e un padre.

E dunque: perché non parlarne insieme? Hai visto mai che le rivendicazioni femminili non possano essere riconosciute, dalla (non) controparte, dalla “controparte a proprio danno”, aiutandoci pure a “curare” le (tante) donne del patriarcato che ne trasmettono la cultura.

Nel modello familiare patriarcale sono le donne ad accudire ed ad educare i figli, a farli crescere, trasmettendo loro i valori familiari e i ruoli ascritti. Il padre dovrà essere assente, per dovere (che crede un diritto), e lavorare, lavorare, lavorare. Non potrà, come le donne, accettare, ma anche scegliere, di essere il titolare, a  casa, dei bisogni di cura, da condividere. Non amerebbe esigere almeno, ma non solo, il diritto ad essere padre?