Stereotipi e Musei

Faloyin Dipo, “L’Africa non è un paese”, Ed  Altrecose – Il Post e Iperborea. Traduzione dall’inglese di Tommaso Bernardi. Prefazione di Eugenio Cau – Il Post

Il colonialismo, quando nel diciannovesimo secolo le potenze europee disegnarono col righello sulla mappa i confini di stati che non esistevano, dividendo a casaccio gruppi etnici e linguistici, ha plasmato tutta la storia del continente da quel momento in avanti.”

Ho brevemente già parlato nel precedente post – (Qui) – di quella che è la prima parte, generale, di questo libro, vale a dire di come le maggiori nazioni europee si accordarono, in assenza programmata di rappresentanti delle nazioni africane interessate, per spartirsi l’Africa “coloniale” in modo tale da non creare scontri all’interno del proprio gruppo. 

La Conferenza di Berlino – 1885/1885 è stato un incontro tra “stakeholder”, tali per reciproco riconoscimento; tra nazioni che, spesso, si erano combattute e si combatteranno tra loro, ma che, nel confronto con un mare di interessi quali emergevano dalla possibilità di cannibalizzare un intero continente, prescindendo dai suoi abitanti e dalle loro storie, indicava l’opportunità di un accordo.

Gli Stati europei, senza considerazione alcuna per le realtà sociali su cui stavano esercitando una forma particolarmente odiosa e violenta di annientamento, hanno visto l’importanza di considerarsi, per l’appunto, portatori, tutti, di interessi <legittimi> – assumendo, per l’appunto, il ruolo di stakeholder.

Africa dopo la conferenza di Berlino 1884 – Enciclopedia britannica.

Le aree in giallo sono ancora libere dal colonialismo. Al centro lo Stato Libero del Congo

In quest’operazione, Gran Bretagna, Francia, Germania, Paesi Bassi, Belgio, Spagna, e Stati Uniti si sono spartiti l’intero Continente, decidendone nomi, confini e diritti di sfruttamento, sulla base dei territori già acquisiti e degli interessi, considerati legittimi, delle nazioni europee al tempo ancora a digiuno di territori africani su cui espandere la propria economia – a cui portare la propria civiltà, per il loro bene. (sic!)

Impero asburgico, Svezia-Norvegia, Danimarca, Italia, Impero Ottomano e Russia parteciparono come osservatori, trattandosi di Stati che non avevano <ancora> possedimenti nel Continente africano ma cui venivano riconosciuti, pena futuri conflitti, diritti a partecipare del bottino.

Lo hanno fatto tirando righe dritte tra territori, tra l’una e l’altra realtà comunitaria, tra regni e tribù, organizzate in culture e lingue diverse, a riprova del fatto che non consideravano gli abitanti di quei paesi – vogliamo dire pienamente umani?

Erano nazioni enormemente più forti degli abitanti e delle organizzazioni comunitarie del Continente africano. Erano nazioni che consideravano sé, e solo sé, “civili” e che, non conoscendo le realtà storiche, sociali, umane su cui agivano – di più, senza alcun interesse e alcuna motivazione a conoscerle – ammantarono le proprie azioni, agli occhi dei propri popoli e di se stessi, di una motivazione altruista: avrebbero aiutato quei popoli ad accedere, nella misura per loro possibile, alla “civiltà”.

Avevo avuto occasione di riproporre, anni fa, la poesia di Rudyard KIpling “Il fardello dell’Uomo Bianco” (Qui), a conclusione di un Parliamone, desidero, qui, riproporla: al suo tempo, è stata molto conosciuta, ed encomiata.

Il fardello dell’Uomo Bianco

Rudyard Kipling, (1865-1936)

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco – / Disperdi il fiore della tua progenie – / Obbliga i tuoi figli all’esilio

/ Per assolvere le necessità dei tuoi / prigionieri;

Per vegliare pesantemente bardati / Su gente inquieta e selvaggia – / Popoli da poco sottomessi, riottosi,

/ Metà demoni e metà bambini.

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco – / Resistere con pazienza, / Celare la minaccia del terrore / E

frenare l’esibizione dell’orgoglio; /

In parole semplici e chiare, / Cento volte rese evidenti, / Cercare l’altrui vantaggio, / E produrre l’altrui guadagno.

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco – / Le barbare guerre della pace – / Riempi la bocca della Carestia /

E fa’ cessare la malattia; /

E quando più la mèta è vicina, / Il fine per altri perseguito, / Osserva l’Ignavia e la Follia pagana

/ Annientare la tua speranza.

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco – / Non sgargiante governo di re, / Ma fatica di servo e di spazzino –

/ La storia delle cose comuni. / I porti in cui non entrerai / Le strade che non percorrerai / Le costruirai

/ con i tuoi vivi, /

E le contrassegnerai con i tuoi morti.

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco / E ricevi la sua antica ricompensa: / Il biasimo di coloro che fai progredire, /

L’odio di coloro su cui vigili – / Il pianto delle moltitudini che indirizzi / (Ah, lentamente!) verso la luce:

«Perché ci ha strappato alla schiavitù, / La nostra dolce notte Egiziana?»

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco / Non osare piegarti a un compito /

inferiore – /

E non invocare troppo forte la Libertà / Per nascondere la tua stanchezza; / Che tu gridi o sussurri,

Che tu agisca oppure no, / I popoli silenziosi, astiosi / Soppeseranno te e i tuoi Dei.

Raccogli il fardello dell’Uomo Bianco – / Dimentica i giorni dell’infanzia – / L’alloro offerto con leggerezza

/ Il premio facile, concesso di buon grado. / Viene ora a esaminarti, nell’età adulta, / Per tutti gli anni

/ ingrati,

Freddo, affilato da saggezza costata / cara, / Il giudizio dei tuoi pari!

Il libro è preceduto da una bella prefazione di Eugenio Cau*, in cui ci viene detto come questo sia “un libro sugli stereotipi e i luoghi comuni che riguardano l’Africa da sempre, e che intrappolano anche i più benintenzionati” aggiungendo come, e dovrebbe essere un’ovvietà, “già dire che gli stereotipi riguardano l’Africa, e non la Nigeria, il Ghana, il Senegal, l’Algeria è un po’ uno stereotipo”.

Non mi tratterrò da un’aggiunta, ed è questa: anche nominare Stati in buona parte inventati da invasori europei, per la verità, conferma uno stereotipo, potremmo chiamarlo lo stereotipo fondamentale, ormai introiettato, sull’Africa: che situazione assurda!

Cau conclude la sua Prefazione, dopo aver sintetizzato un primo messaggio che l’autore ci offre, dicendoci che “L’Africa è di più dello sguardo coloniale, e fin qui constatiamo l’ovvio, (…), che in Africa si parlano più di duemila lingue,” ma soprattutto che “non solo (l’Africa) non è un paese ma è un continente normale, che gli africani e le africane  non sono abituati a passare da una dittatura all’altra, da una carestia all’altra, da una epidemia all’altra. ….che anche per l’Africa l’eccezionalità non è normale. Che Lagos…è come New York, se New York si impegnasse a non dormire mai.

Ecco perché è fondamentale, e l’autore lo spiega con chiarezza tale da non poterne prescindere, che escano dai grandi Musei del mondo occidentale TUTTI i manufatti, le opere d’arte, i documenti che costituiscono la storia dei diversi popoli africani. Non solo perché sono stati rubati, e il maltolto va restituito; non solo, e basterebbe, perché è giusto, ma perché tutti quei manufatti, opere d’arte, documenti sono la sola via per consentire alle popolazioni degli Stati africani di ricostruire la propria storia, di studiarla, di tramandarla. Di portare alla luce identità e percorsi culturali capaci di illuminare le loro culture e le nostre, che a loro volta andranno rivisitate; di aiutare anche noi che, sia pure malamente, quelle loro storie, per un tratto del tempo, abbiamo condiviso, a fare i conti con identità, anche nostre, mal definite, falsate. Da conoscere. Su cui costruire utilmente per tutti.

________________________Lagos Island**_____________________

Dopo aver narrato, in modo superlativo, facendoci desiderare di conoscere la realtà della sua città, Lagos, c’è dunque una parte del libro, la Sesta, particolarmente importante e che, all’interno del tema “Il caso dei manufatti rubati” segna il cuore dell’operazione che ha annullato, con la loro storia, le diverse realtà culturali, le forme “statuali” del continente africano, sostituendole con nazioni fittizie, essendo <nazione> e <patria> costrutti culturali europei; culture e storie (come le nostre) anche conflittuali tra loro, dotate di proprie lingue, di narrazioni, di miti fondativi; diversi e condivisi; realtà diverse, ognuna con una propria storia, del Continente africano.

La Prefazione viene chiusa da una Nota dell’autore, in due punti, con il secondo dei quali, parlando di sé, afferma una realtà fondante un’identità:

“Io non sono genericamente africano. Sono nigeriano. E questo libro esprime il mio punto di vista nigeriano.”

Quanto a me, mi accorgo di aver solo in parte, parlato del libro; di aver parlato della mia lettura di questo libro, di come ha interrogato il mio pensiero, ciò che so e il quasi tutto che non so delle <patrie>, delle culture del Continente Africa. Possiedo dei libri che dovrò rileggere, e molti altri li dovrò cercare.

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NOTA

*Eugenio Cau: Giornalista, conduce il podcast di esteri “Globo”, del quotidiano Il Post.

**Dipo Faloyin è nato a Chicago, è cresciuto a Lagos e attualmente vive a Londra. È un redattore senior e scrittore per la rivista Vice e ha scritto per The Guardian, Esquire, Newsweek, Dazed, ID, Thw Huffington Post, Refinery29 e Prospect. I suoi scritti si sono concentrati su temi di cultura, razza e identità in Europa, Africa e Medio Oriente. (Fonte Wikipedia).

***Foto 1: Lagos Island, Photograph by Benji RobertsonLink to original at world66.com, CC BY-SA 1.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=2455790