“Carpe diem”, anche confidando nel domani

Carlo Rovelli

Carlo Rovelli, “L’ordine del tempo”, Adelphi 2017

E mentre i versi di Orazio (qui), di sottofondo, ricordano, mantengono, il tema dentro e per la nostra vita, ascoltiamo, più che leggere, una eco di queste pagine.

Abitiamo da sempre un mondo che esiste nel tempo, ci dice Carlo Rovelli. A volerlo dire con parole piane, niente è più familiare, più condiviso tra gli uomini, della comune esperienza del tempo, mentre ognuno di noi sa, vive, il diverso moto apparente del suo scorrere, nella propria esperienza soggettiva; e domanda, interroga, l’essere del tempo, la sua natura, il suo portarci con sé in un percorso senza ritorno. Si favoleggia, da sempre, in ogni tempo e ovunque, sulla possibilità di un ritorno, per sedare l’ansia che porta con sé non il dubbio bensì la certezza: perché lo sappiamo bene, nulla è certo, per noi, come lo scorrere del tempo, e nessuno vi si può opporre.

Vale per la nostra vita. Vale per tutto ciò che ci circonda. Vale per le pietre e le montagne. E la domanda sulla natura del tempo mantiene, per ognuno e per tutti, il suo carattere di assillo, di vincolo la cui natura resta incompresa.

La mente dell’uomo ha lottato, ha vinto battaglie, nella ricerca sulla natura della realtà in cui viviamo immersi, ha vissuto lo sconcerto di scoprire la diversità esistente tra ciò che appare – il ruotare del sole intorno alla terra – e ciò che è – il ruotare della terra intorno al sole. Ha scoperto leggi che descrivono le regolarità che osserviamo, dal nostro mondo, e oltre, regolarità dei mondi, plurali, che non vediamo: dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo; e si è spinta fino ad individuare alcune cose, alcuni percorsi che suggeriscono possibilità circa la natura profonda del nostro pianeta e del cosmo.

La mente dell’uomo ha raggiunto provvisorie certezze. Ora, oggi, <sa> alcune cose – sapendo altresì che altre cose, ipotesi in corso di studio, e ipotesi che ancora non siamo in grado di formulare, potrebbero cambiare verso a questo nostro sapere. Sappiamo, oggi, la provvisorietà di una conoscenza vincolata da un punto di vista che ne orienta, e ne qualifica, il senso, la direzione; consapevoli del fatto che ciò che sappiamo è parte: perché lo siamo noi; perché siamo parte di ciò che osserviamo e dunque obbligati, limitati, nella nostra visone. Sappiamo, comprendiamo, che la struttura stessa del nostro linguaggio limita, definisce, l’ampiezza e il verso, di ciò che siamo giunti a comprendere, e ci confrontiamo con il bisogno di superare le nostre stesse strutture di pensiero.

Anassimandro, bassorilievo (Roma, Museo Nazionale Romano). Probabilmente copia romana di un originale greco. Questa è la sola immagine di Anassimandro rimasta dall’antichità. (Da: Wikipedia)

Rovelli racconta. Lo fa a partire da Anassimandro, che ha compreso (ipotizzato) per primo come la terra stia nello spazio, non sostenuta da nulla; come la terra sia necessariamente una sfera.

Transita, Rovelli, mostrando la linea di continuità di un pensiero che si è sviluppato per apparenti contraddizioni; in realtà confermando, ad ogni salto di prospettiva, ciò che era conosciuto e solo cambiandogli verso, ampliando, modificando, l’angolo di visuale.

Anassimandro, Copernico, Galileo, Newton, Einstein; e Agostino, e la vitalità in campo scientifico della Rivoluzione francese, di cui Rovelli, in nota (11, pag. 182) ci dice essere stata “uno straordinario momento di vitalità scientifica, nel quale nascono le basi della chimica, della biologia, della meccanica analitica e di molto altro. La rivoluzione sociale è andata mano nella mano con la rivoluzione scientifica. Il primo sindaco rivoluzionario di Parigi era un astronomo, Lazare Carnot un matematico, Marat si considerava innanzitutto un fisico. Lavoisier è attivo in politica. (…)

La storia di questa ricerca millenaria ha veduto dei punti di svolta che hanno portato, nelle loro conseguenze, a grandi mutamenti sociali, in conseguenza di grandi scoperte, di tappe, di punti di sosta di un lungo cammino – assunti infine dal pensiero comune come certezze – tali da produrre il cambiamento della nostra percezione del mondo. E della nostra azione nel mondo.

Isaac Newton

Così, noi oggi consideriamo condivisa la misurazione del (nostro) tempo, e su questa certezza organizziamo la nostra vita; possiamo chiedere che ore sono e, a parità di fuso orario, basare sul nostro orologio la certezza di un tempo universalmente valido e condiviso – Newton agisce ancora nella nostra cultura – ben sapendo che non è così, non proprio. E conviviamo, nella nostra quotidianità, con una qualche conoscenza delle scoperte che, nell’ultimo secolo, hanno mutato il nostro sapere del tempo, senza che tutto ciò (apparentemente) influisca sul nostro vivere quotidiano. Conviviamo con l’aver studiato, e in qualche modo appreso, il secondo principio della termodinamica (il calore non può spontaneamente fluire da un corpo freddo ad uno più caldo); con il sapere della freccia del tempo e delle sue conseguenze; con la nozione di entropia, sapendo che non il solo nostro individuale tempo è orientato e finito; ci conviviamo, vedendo di non pensarci troppo. Formule astruse.

E in proposito, una nota a margine, per condividere un sorriso.

Il prof. Rovelli, a un certo punto, iniziale, del suo libro, parlando dell’entropia, scrive: ΔS ≥ 0; e “spiega”: si legge “Delta S è sempre maggiore o uguale a zero, e questo si chiama secondo principio della termodinamica”. Detto tutto, a suo parere. Salvo chiudere con una affermazione involontariamente divertente:

Perdonatemi l’equazione: è l’unica del libro. È l’equazione della freccia del tempo, NON POTEVO (maiuscolo mio) non scriverla, nel mio libro sul tempo.”

La morte di Marat, dipinto di Jacques Louis David, 1793

Umano, nonostante tutto. Capita spesso che qualche professore di matematica e fisica lo sia. E poiché tale inserzione, con annessa, secondo lui, spiegazione, si trova a pagina 31 (il testo del suo libro inizia a pagina 13), temo abbia perso, in questo preciso punto, molti lettori inconsapevoli del fatto che, pur non essendo questo l’unico passaggio astruso per i comuni mortali (e avendo il nostro, peraltro, provveduto a ben sfogarsi nelle note) il libro consente benissimo di sorridere e passar oltre, e regala un pensiero chiaro, aperto, di grande fascino, sul tema. Come dire: nella sostanza, anche se non sa resistere alla sua golosità per la materia e si concede qualche dolcetto, il prof. Rovelli (nomen omen) poi ridonda, come dovuto, e si spiega benissimo. Tanto più in quanto ci parla di noi, del tempo della e nella nostra vita, e della relazione che intratteniamo con il mondo, con l’universo che abitiamo, di cui siamo parte, non spettatori esterni.

E il secondo principio della termodinamica, e il concetto di entropia, che ci dicono come i fenomeni naturali, tra cui la nostra vita e tutta la vita che ci circonda, non siano reversibili, e che la freccia del tempo non cambierà direzione, diventeranno qualcosa di concreto nella nostra mente, diventeranno qualcosa che opererà nel nostro pensiero, per i nostri criteri di priorità, nelle nostre scelte di vita. Usciremo da questa lettura mutati – anche se avremo trascurato alcuni dettagli, alcune “specifiche tecniche” – e vorrei dire mi scusi professore, so bene che lei si è affaticato ed è convinto di esser stato chiaro anche per i non addetti ai lavori; e lo è stato, glielo assicuro, quanto più non si può, ma deve anche capire noi…più di tanto…

Agostino, in un dipinto di Antonello da Messina. Da Wikipedia

Il nostro è il tempo in cui si formano innanzi a noi possibilità, domande, e una sola fragile, sconvolgente, certezza: anche il tempo “funziona diversamente da come appare”.

Entreremo “nel mondo senza tempo” dell’infinitamente piccolo, là dove i processi, le regolarità, possono essere descritti senza utilizzo della variabile temporale. Abbiamo incontrato un mondo che si è rivelato un insieme di <eventi>, non più un insieme di <cose>.

Abbiamo incontrato i diversi significati del tempo, e della sua assenza; il che “non significa (…) che tutto sia gelato e immoto. Significa che l’incessante accadere che affatica il mondo non è ordinato da una linea del tempo, non è misurato da un gigantesco tic-tac. Non forma neppure una geometria quadridimensionale. È una sterminata e disordinata rete di eventi quantistici. Il mondo è più come Napoli che come Singapore.”

Dove, tuttavia, “se per <tempo> intendiamo null’altro che l’accadere, allora ogni cosa è tempo: esiste solo ciò che è nel tempo”.

Ci fermiamo, credo, tutti, su quell’”incessante accadere che affatica il mondo” che dice molto, dice tutto. Una frase tanto bella, e significante, che mi trovo a dover parlare, direttamente, con il prof. Rovelli; non posso proseguire diversamente. È il solo modo che mi consente di stare su ciò che, di questo libro, ho fatto mio, sicuramente in maniera distorta, restando tuttavia certa che accadrà così a molti lettori. Da qui, posso unicamente procedere a pseudo-domande. Da tenere, poi, per me; da cullare.

Ecco qui.

Ora, ha assunto un diverso spessore la domanda che Lei ha formulato per noi: “Cosa è reale?”, “Cosa esiste?”, una domanda divenuta concreta; in prospettiva, persino in attesa di risposta, per quanto parziale, provvisoria; una domanda, che, nel frattempo, mantiene tutta la sua forza per la nostra vita.

C’è tuttavia stata quella faccenda scabrosa, quella storia sui “quanti”: mi scuserà, spero, se propongo di tradurli, pensarli, con la parola “particelle subatomiche”, tanto per capire a spanne; incontro  l’immagine di un pulviscolo, di un microscopico granello di polvere di cui non è possibile, se non, va bene, probabilisticamente, sapere dove andrà; e che anzi ci sarà solo nel momento in cui andrà da qualche parte, non essendo pensabile un granello di polvere fermo. Capisco di aver capito – qualcosa? – niente, ma sono a questo. Che dice, può bastare? Tutto sbagliato?

Siamo stati condotti per mano in un lungo viaggio, da cui siamo tornati diversi. Un viaggio di andata “verso un universo senza tempo”, mentre “il viaggio di ritorno è stato lo sforzo di capire come da questo mondo senza tempo possa emergere la nostra sensazione del tempo”.

Poi, ci viene ricordato ancora qualcosa di utile, di produttivo:

“Possiamo porci ulteriori domande, ma dobbiamo stare attenti alle domande che è impossibile formulare bene. (…) Quando non riusciamo a formulare un problema con precisione, spesso non è perché il problema sia profondo: è perché è un falso problema.”

Ed ecco – a chiudere – il tema della morte; la nostra, individuale; la “sorella del sonno”, come la chiama Bach. E il tema della paura della morte, che Rovelli definisce, mi pare benissimo, un “errore dell’evoluzione”, ricordando Giobbe, morto quando era “sazio di giorni”.