Tempo di domande? per chi legge, per chi scrive (2)

Riprendo da qui, dall’aver scritto, non molto tempo fa: “Posso dire che, in questi giorni, non ho voglia di leggere? Non sarebbe la verità, direi una bestemmia, pur trovandomi di certo preda di qualcosa che un po’ somiglia a un’asserzione tanto balorda. …Potrei rovesciare i termini e dire che non ho voglia di scrivere, anche se pure questo non è vero. Sto scrivendo, infatti… (qui)

È stato il momento in cui mi sono imbattuta nel libro (che stava attendendo, quasi dimenticato) di Albinati: “Oro colato. Otto lezioni sulla materia della scrittura.”

Al solito. Mi sono entusiasmata, l’entusiasmo si è un po’ ridimensionato, per stabilizzarsi ad un apprezzamento nei giusti confini del tutto.

Sto completando ora questa lettura – mi manca l’ultima lezione e mi sto trattenendo dall’andare a curiosare il paragrafo di chiusura. E confermo: è un libro particolare, curioso e interessante. Che tuttavia non potrei “recensire”, trattandosi di una lunga chiacchierata che credo possa venir diversamente accolta nella relazione al singolo lettore; c’è un’attesa di dialogo, il desiderio di rispondere alle suggestioni offerte dall’autore, di porre domande ulteriori per qualcosa che coinvolge davvero molto – se il tema interessa.

Quanto Albinati traspone in scrittura, qui, è infatti un <parlato>, avendo egli trascritto e sistematizzato, come si legge nella Nota di chiusura, un ciclo di lezioni tenute ai dottorandi in Italianistica della II° Università di Roma, novembre 2011/febbraio 2012 – e no, non ho sbirciato l’ultimo paragrafo; solo la nota di chiusura, quando ho valutato l‘acquisto del libro. Mentre poi, nella Premessa, parlando della sua attività, di conferenziere, di insegnante, egli scriverà dell’esperienza del parlare nei contesti più diversi: a “una sala di signore appassionate di romanzi, una classe di coatti della Roma suburbana, una cella zeppa di carcerati di varie nazionalità – e poi seminari, accademie, festival, circoli (…).”

Brevemente: di cosa parla questo “libro”? Non di ciò che il titolo suggerisce. Oggi sono molto frequentati i corsi di “scrittura creativa”. Ci si potrebbe aspettare persino un certa qual noia compensata da un ne vale la pena, sto apprendendo molto, interessante questa cosa, ecco, ora so dove sbaglio sempre!

E invece no. Ecco qua. Prima lezione. Primo paragrafo: “Risalire il fiume

Incipit: “Come un salmone, risalgo la corrente. (…) da un libro finito, pubblicato e letto, vorrei tornare indietro verso la bozza mandata in stampa, quindi alle stesure precedenti…e al momento stesso in cui il libro veniva scritto, e prima ancora, alle ricerche che accompagnarono lo spunto iniziale, ai materiali utilizzati e agli appunti presi, e poi su, su, all’indietro, fino all’istante dell’ideazione, dove e come si è formato…il nucleo immateriale precedente all’espansione”

“Certo, man mano che si risale il fiume, i pensieri si fanno più pericolosi e incerti, pure ipotesi, azzardi”.

Da qui in poi, un libro siffatto potrò solo ricondurlo alla mia esperienza di scrittura, al non aver voglia di scrivere mentre preme l’urgenza di farlo, al non avere alcunché da dire e sapere che c’è là qualcosa che vorrebbe prendere forma, che c’è un filo da dipanare.

Di questo si tratta. Dello scrivere, della sua necessità, della sua inutilità, c’è tanto da leggere, è praticamente impossibile non scrivere il già scritto; di quel processo che si svolge a partire da…non importa. Si tratta della mia domanda: a cui non ho trovato risposta ma qualche buon aggancio, indicazioni di percorso.

“Ho richiamato alla mente non tanto le esperienze positive e riuscite, ma piuttosto i fallimenti, i passi falsi, i progetti abortiti, le idee lasciate a metà o realizzate malamente…”

“Normalmente ci si immagina che un’idea venga sviluppata e quindi realizzata, mentre, al contrario, la più grande tensione artistica scaturisce dal sacrificio di quella stessa idea, purché venga attuata. La realizzazione, in altre parole, è sempre differente e superiore al progetto: i libri mediocri sono appunto quelli in cui l’autore si è limitato ad eseguire a puntino il suo piano.” (…)

“Dalle ceneri di un progetto nasce o rinasce un’opera nuova: e questo corrisponde appunto al sacrificio nella sua definizione antropologica, come qualcosa che crea valore distruggendo valore.”

Il tema dell’accumulo – gratificante sapere che non si tratta di uno stato confusionale mio, che per altri (per tutti?) funziona proprio così ed è errata l’immagine di quel tale (che è un vero scrittore, mentre io mento: a me stessa? Agli altri?) che siede davanti al foglio bianco, alla pagina word, e scrive sicuro, nella testa una storia, completa, perfetta.

Non funziona così. Albinati ci parla della fatica, del lavoro – è la prima lezione, non mi spingerò oltre – soprattutto dell’accumulo, che conosciamo tutti bene (confermatemi che è così!): appunti, storie che iniziano e muoiono, che non sentiamo più nostre, dimenticate, gettate oppure no, file su file, inchiostro su inchiostro, correzioni, strappi, nuovi inizi.

 “Il momento dell’accumulo (di spunti, appunti, suggestioni, letture, argomenti correlati…) trova la sua giustificazione, e la sua naturalezza, nella semplice ragione che la letteratura è un mondo già in grandissima parte dato.” Per l’appunto.

Ricerche, documentazione, nel disordine più assoluto, e ovviamente non so, qui, se sto parlando di ciò che il libro contiene o se sto andando per i fatti miei, e non credo di sbagliare se li chiamerò fatti nostri. Tempo nostro, impegno, il 99% del quale “se n’è andato in un lavoro non di composizione, ma di implacabile distruzione. Ecco che il lavoro preparatorio della scrittura fa parte di una cerimonia sacrificale dove si sa in partenza che il 99% delle proprie parole, idee, invenzioni, intenzioni, verrà cancellato, sarà distrutto.”

Terminata la lettura di un paragrafo, di una lezione, ci si ritrova a pensare questi nostri fatti, la nostra scrittura in tutti i suoi garbugli – del libro ci si è in qualche modo dimenticati. Disvelato il segreto: anche lui, anche loro, gli scrittori, vivono dubbi di esserlo, si contorcono e si disperdono dentro ammassi di note, appunti, ricerche, idee luminose che si spengono, o che vengono appunto sacrificate per percorrere altre strade che, alla fine, diverranno (o non diverranno) il prodotto finale: il libro? Certo. Anche. L’articolo, il racconto, il saggio.

L’atto della scrittura somiglia in maniera vertiginosa all’atto sacrificale, inteso come distruzione deliberata di ciò che si ha di più prezioso”.

Poi il testo, la correzione, che si impara a fare solo attraverso il fare, (“mi riconosco pienamente nell’affermazione autoironica del poeta Cardarelli il quale sosteneva – lui personalmente, la sua cerchia, i suoi amici letterati – di essere il tipo di intellettuale che si era fatto una cultura sugli articoli che scriveva”).

L’editoria, il problema del libro-merce, dell’autore, del mercato; il rapporto con l’editor, il valore e la funzione di questa figura di alta professionalità che sta, e chiede di rimanere, dietro le quinte. Le bozze, ancora le correzioni.

Finirà, così come finisce quando si ascolta una conferenza, quando si partecipa ad un dibattito, che se ne uscirà soddisfatti o meno, avendo o meno apprezzato, in relazione a quanto chi ha parlato ci ha confermato, rassicurato, fornito informazioni che incontrano agevolmente le nostre costruzioni mentali, risolvendoci un dubbio, regalandoci una certezza; o non invece abbia reso ancora più traballanti noi e la nostra ricerca di coerenza mai risolta. Finirà che esprimeremo un giudizio sulla sua opera per salvaguardare il giudizio su di noi. Lo apprezzeremo o meno per ciò che non ha detto, per l’interlocuzione non risolta, per il suo essere, di volta in volta, apertura di mondi possibili o disconferma di ciò che <io> sono, di ciò che <io> penso, perché, mi par di capire, ciò di cui necessito non esiste, perché neppure può essere messo a tema.

Non potremo negare tuttavia che la lettura (ma sarebbe meglio dire l’ascolto) ci ha lasciato materia per il nostro pensiero sulla nostra scrittura, e sulla nostra lettura.

Fa bene anche il fatto che non si concordi su tutto, sempre. L’autore è fortemente categorico nelle sue affermazioni, mentre noi accogliamo bene il fatto che non lo sia per davvero, che parli, in ultima istanza, di sé – aprendoci la possibilità di usare il suo libro per pensare di noi, e dare sviluppo al nostro pensiero – parlando di timori, paranoie, difficoltà, gratificazioni, fatiche, domande.

Dovrei concludere che si tratta di un buon libro. E lo è. Rimane la mia domanda – meglio: rimane la difficoltà di formularla. Da dove, perché, il bisogno di scrivere? Privo di oggetto. Qualsiasi cosa. Una particolare lista della spesa. E se non sarò riuscita a dar vita alla narrazione imperitura, va bene, basterà che io non venga separata da questo canale di vita.

Nessuna risposta. Molti sentieri da percorrere. Inaspettati e produttivi.