Tempo di domande? per chi legge, per chi scrive

Edoardo Albinati

Posso dire che, in questi giorni, non ho voglia di leggere? Non sarebbe la verità, direi una bestemmia, pur trovandomi di certo preda di qualcosa che un po’ somiglia a un’asserzione tanto balorda. Con una tale affermazione mi troverei, credo, nel campo del verosimile, che per definizione è <non vero> e tuttavia implica una forma di rapporto con la verità.

Potrei rovesciare i termini e dire che non ho voglia di scrivere, anche se pure questo non è vero. Sto scrivendo, infatti, ed è ciò che, in questo momento, voglio fare; oserei dire persino che ne sento l’urgenza. Perché ho qualcosa da dire? Ecco, no, non proprio.

Posso affermare solo che so di voler dire qualcosa, che urge ma fatica a prender forma.

Potrei dire che entrambe le cose sono vere ma anche no; che mi sarebbe necessario definire i modi di un’esperienza di lettura, e di un’esperienza di scrittura che, al momento, contengono in sé qualcosa di erroneo. Vorrei leggere in altro modo, vorrei scrivere diversamente? Dovrei mettere a fuoco un cambiamento che credo stia avvenendo nel mio rapporto con il libro e con la pagina bianca.

Sto leggendo (la coerenza non è una virtù) un libro che mi sta coinvolgendo molto, e cui vorrei, ora, dedicare tutto il mio tempo; si tratta di un libro che chiede di esser letto con tranquillità, escludendo ogni senso di urgenza. E io mi ci sto soffermando, paragrafo dopo paragrafo, a riflettere, come quando, dopo aver gustato un buon boccone, si sosta per lasciare il tempo al palato di coglierne, e individuarne fino in fondo, i diversi sapori che lo compongono, e godere, nel frattempo, l’attesa del boccone seguente.

Dovrei aggiungere che si tratta di un libro che non appartiene ai <nuovi acquisti>. È un libro lasciato, un bel po’ di tempo fa, dopo un inizio lettura che si è interrotto. Perché?

Oro colato. Otto lezioni sulla materia della scrittura”, Fandango 2014, di Edoardo Albinati. Controllo, e vedo che ne avevo accennato, ormai più di un anno fa. (qui)

È questo un libro che parla della scrittura di un libro. Del suo farsi. Non è un libro per ogni momento: richiede, per essere letto, che lettura e scrittura vengano sospesi; pare aver richiesto, allo stesso autore, una qualche forma di interruzione della scrittura per essere costruito e scritto. Ma come ciò possa avvenire, non so. Deve trattarsi del vecchio gioco dei paradossi, del salto di livello nella gerarchia delle classi, dove la scrittura parla di sé utilizzando se stessa. Vecchi giochini sempre interessanti, che tuttavia non danno risposte capaci di essere sentite come vere, al di là del gioco della ragione; non nel confronto con la vita e le sue emozioni.

Mi è chiaro, tuttavia, il fatto che tutto questo, le assurdità che sto scrivendo, si legano a questo libro, le cui pagine interrogano per l’appunto il processo di produzione della scrittura, a partire dalla dichiarazione di intenti, a partire da un prima ancora che ciò avvenga, da prima del momento di cui Albinati dirà come “l’atto della scrittura somigli in maniera vertiginosa all’atto sacrificale, inteso come distruzione deliberata di ciò che si ha di più prezioso”.

Chissà se riuscirò a venirne a capo e scriverne. Mentre ora, ecco il punto, seguendo l’autore che parla del farsi di un libro, del suo realizzarsi attraverso un processo, complesso, di accumulo e distruzione, non posso evitare di confrontarmi con il processo che porta a leggere un libro, <quel> libro, in quel momento, e magari a costruire su quelle pagine un altro libro, ancora una volta attraverso un processo di accumulo – esperienze di letture precedenti, esperienze di vita, di quel preciso tempo di vita, con i suoi bisogni, le sue risorse – e attraverso un processo di, ecco, nel caso del lettore, non si tratterà di distruzione, sarà, forse, respingimento, cecità, fraintendimento; potrebbe essere addirittura irritazione e rifiuto. Potrà accadere che un libro venga lasciato per quel tanto che, delle sue pagine, avremo bisogno di buttar via; al momento, mentre in altri tempi potremmo compierne letture diverse, nei tanti modi che la diversità contiene. So che ritorno, forse troppo, su questo argomento: ma ora, ho trovato parole altrui per dirlo.

Già la prima delle otto lezioni – che, come i vecchi libri di scuola, pone in premessa ad ognuna un sommario con i titoli dei paragrafi – contiene alcune affermazioni che, da sole, interrogano aprendo scenari interessanti: si legge il titoletto e si interrompe la lettura; si cercano le possibili risposte, in luogo di proseguire e leggere quelle che l’autore ci propone. Che dire ad esempio di questi titoli?

“I libri non andrebbero letti da chi compra libri.”

” Appunti ben scritti: da buttare.”

Il pensiero ha forse trovato in questo libro una cima cui aggrapparsi, un percorso da seguire in compagnia. Dialogando? Riferendo il tutto ad altro? Trasferendo l’esperienza di questa lettura nella propria esperienza di scrittura e lettura, e finendone travolta?

Come avviene l’incontro – il giusto tempo, le giuste condizioni; come avviene di mancare un incontro, quanti se ne mancano?

Domande prive di risposta, principalmente in quanto mal poste, che tuttavia restano (per chiunque cerchi, trovi, nella lettura e nella scrittura, un percorso di relazione al mondo); ma vi sono (ancora, credo per ognuno) momenti in cui le stesse urgono. Si fanno impellenti, nella domanda di senso che aggancia la lettura del testo in cui sono state colte; o per chi le ha invece poste, in tutta la loro urgenza, anche impropriamente (ma che vorrà dire?) dentro un testo in lettura: perché anche questo avviene, nei tanti modi in cui integriamo, in ogni lettura, pezzi di noi e nei modi in cui impastiamo, dentro i nostri scritti, le letture compiute in tutti i loro travisamenti.

Altro passaggio:

“(..) mi accorgo che tutto ciò che mi accade, tutto quello che leggo, che mi dicono le persone intorno a me o che succede nel mondo sembra che stia fornendo materiali, sembra che tutto insista – uso <insistere> proprio nell’accezione della geometria, quando si dice che un certo angolo insiste su un arco di circonferenza – su ciò a cui sto lavorando. (…) Fioccano le coincidenze miracolose, tutto converge sul lavoro, tutto ma dico proprio <tutto> sembra parlarti del tuo lavoro…ci entra dentro, lo bagna, lo stimola, lo indirizza.”

In quest’ultimo mese (bellissimo), in altro impegnata, in cui ho per un paio di settimane trascurato queste pagine, non ho certo sospeso la lettura; non ho dimenticato la mia lista di libri. Qualcosa è stato letto, qualcosa è stato lasciato (delusione), qualcosa è in corso di lettura, rallentato ma non interrotto, per la curiosa intromissione del libro solo apparentemente dimenticato di Albinati – va a capire come ciò sia potuto accadere, se non per la fortuna, essendo fuori casa, di possederne, nell’e-reader che mi accompagna sempre in viaggio, la versione e-book.

Di questo autore ho anche ripreso in considerazione l’eventualità di leggere “La scuola cattolica”, Premio Strega dello scorso anno, concludendo definitivamente per il no. È un libro che sicuramente non leggerò.

Ma questo “Oro colato”, è veramente tale; davvero, lo sto considerando uno dei miei libri della vita, e tale lo considererò anche se, avendone letto ancora solo una piccola parte, nel seguito dovesse deludermi (non credo): un libro per questo momento della vita, forse, per me, nella certezza tuttavia che mi avrebbe dato qualcosa di importante anche in altri momenti. Forse qualcosa di diverso?

Il pensiero va, d’acchito, al Premio Strega, ed è un pensiero che mi coglie impreparata, un pensiero che non sapevo di pensare, come avviene quando si scrive e la penna, o le dita su di una tastiera, sembrano pensare da sé.

Non so quanta fortuna abbia avuto questo libro – non so peraltro neppure se “La scuola cattolica” ne abbia avuta molta. Sospetto, tuttavia, che “Oro colato” non sia uno dei libri di questo autore di maggior fortuna editoriale. Potrei sbagliarmi, ne sarei felice. Ma non lo credo. E mi arriva inevitabile il confronto con il Premio Strega di quest’anno, con “Le otto montagne” di Paolo Cognetti, che sta avendo un ottimo successo, assolutamente ben meritato, e tuttavia: posso dirlo? Se Cognetti ha avuto con questo suo ultimo lavoro un successo ben meritato, se “Le otto montagne” sono certamente un romanzo che presenta, rispetto ai suoi precedenti lavori, maggiore struttura, diciamo così, il suo lavoro che ho più amato resta un “non romanzo”: “A pesca nelle pozze più profonde. Meditazioni sull’arte di scrivere racconti”. Non ne conosco la fortuna editoriale. Chissà. Mi trovo la voglia di riproporlo: in ogni caso, qui c’è il link: al di là di come io posso averlo saputo proporre, è davvero un piccolo grande libro, che dà molto e rende produttivo, per la capacità evocativa che esprime, il pensiero di chi legge. Non so perché mi trovo a legare le esperienze di lettura di questi due libri.