Roger Frison-Roche, “Primo in cordata“, Garzanti 1960. Traduzione di Roberto Ortolani
Nel dicembre dello scorso anno ho letto “Le otto montagne” di Paolo Cognetti, (qui) attirata e respinta da un tema che è parte della mia vita. Una parte importante: la montagna. Scrivendone, ho premesso di non poterne svolgere una recensione, non riuscendo io a prendere la giusta distanza da quel libro.
Leggendo, riconoscevo (come ognuno fa, nel rapporto con un libro) la mia parte in quella storia: ed emergevano ricordi, e inevitabilmente (ancora come ognuno fa) attraverso la lettura riscrivevo quel libro.
Mentre leggevo, si faceva sempre più forte il richiamo del libro che oggi mi decido a proporre. Che ho finalmente riletto. Si tratta di pagine che da più di trent’anni lasciavo chiuse, da quando, in un altro tempo di vita, le avevo lette tante e tante volte, sempre respingendo l’emozione che la loro lettura mi avrebbe procurato, anche a distanza di tanti anni,
Avviene: ci sono libri che restano nel cuore. Ognuno ha il proprio, credo; e non importa se si tratti o meno di un capolavoro. Importa il fatto che, da un certo momento in poi, si tema il riprenderlo – nel timore che tradisca? Non è questo il caso. È un libro molto bello.
Il libro di Cognetti, con la fatica della mia recensione emozionata, quella che mi ha fatto chiudere dicendo che, sì, “Le otto montagne “mi ha fatta infuriare, perché non si va così in montagna!”, ha insistito. Ed ora sono incerta, nel timore di non saper dire, di non poter dire, la bellezza di questa storia di Roger Frison-Roche.
“Primo in cordata” (in diverse edizioni il titolo sarà “Primo di cordata”) – la prima edizione italiana Garzanti è datata 1950 – è un libro che da molti anni non viene rieditato, dopo essere stato un best seller, tradotto in molte lingue, che ha venduto milioni di copie; che si trova sicuramente nelle biblioteche e di cui si trovano ancora edizioni di seconda mano, senza grandi difficoltà. Un libro che bisogna cercare, ecco. E sono stata felice quando, a Parigi, su di una bancarella, ho potuto appropriarmi di una malconcia prima edizione 1943 (in foto).
Un libro da leggere: più che mai oggi, nel tempo in cui un turismo becero e inconsulto sta violentando la montagna, divenuta un cantiere di impianti di risalita, di chiasso, noncuranza e oltraggio; oggi che la nostra montagna lentamente muore, infiltrata da una stanchezza incompresa, ignara del veleno, disturbata da ciò che per lei altro non è che un nugolo di zanzare – talora ne scrolla da sé qualcuna, un piccolo brontolio, indifferente.
Il libro non conosce tutto questo. Al tempo in cui lo scrisse, Roger Frison-Roche, guida alpina di Chamonix, esperto viaggiatore, esploratore, giornalista e scrittore, non lo avrebbe immaginato.
Pubblicato in Francia nel 1941, racconta una storia, una tragedia della montagna. Racconta la volontà, la forza di vivere. Racconta la vita delle guide alpine di Chamonix. Racconta la montagna.
Siamo nel 1925. Il vecchio Giuseppe Ravanat, “il Rosso”, decano delle guide di Chamonix, sta rientrando – due giorni di cammino – da Courmayeur, dopo aver terminato una guida. Con lui c’è il suo giovane portatore, il nipote Pietro Servettaz, figlio di sua sorella.
Il padre di Pietro, Giovanni Servettaz, a sua volta guida alpina, come tutti gli uomini della famiglia, vuole per suo figlio una vita diversa: sicura, priva dei pericoli del mestiere; con la moglie ha avviato e gestisce una pensioncina. Spera che Pietro la ingrandisca e diventi albergatore.
Pietro accetta la volontà del padre ma ne soffre; ama la montagna e, quando può, segue lo zio come secondo.
“Peccato”, si diceva il vecchio, “proprio peccato farne un uomo di valle.”
Pietro, camminando, ripensa alla guida appena terminata, a quando, nella discesa, per superare un tratto difficile – nevicava, la visibilità era scarsa – il vecchio gli aveva ordinato di sostituirlo, in chiusura di cordata, passando lui davanti per controllare il percorso.
“(…) obbedì, ma il cuore gli si strinse un poco; scendere per ultimo significava prendere il posto della guida e le sue responsabilità. Finché andava innanzi, assicurato alla corda che lo legava, attraverso le due clienti, al solido pilastro costituito da Ravanat, si sentiva pienamente sicuro. Varie volte le signorine, stanche e intirizzite, avevano messo il piede in fallo; e ogni volta, con un colpo secco e imperioso del polso, Ravanat aveva prevenuto la caduta e ristabilito l’equilibrio.
– Dritte in piedi, signorine, – diceva – dritte in piedi nei passaggi.

Sarà nel corso del rientro, ormai in prossimità del rifugio dove pernotteranno, che Giuseppe e Pietro sapranno la notizia. In montagna, quando si incontra qualcuno, ci si ferma, si saluta, si scambiano informazioni sul percorso.
“Uno dei vostri è precipitato sui Dru-“
Uno dei vostri: la mente di Giuseppe va al calendario delle guide; esclude il tale, il tal altro; teme per il cognato. Giovanni Servettaz dovrebbe essere rientrato dall’ultima guida. Forse era ripartito?
Al rifugio la notizia diverrà certa. Giovanni era impegnato a condurre sui Dru[i] un turista americano; lo aveva accompagnato, come portatore, il giovane Giorgio della Clarissa, amico di Pietro. Siamo a fine stagione, e Giorgio, ormai esperto, è destinato a diventare guida nella stagione seguente.
La prima parte del libro racconterà il pericolo estremo, la sciagura. Una guida perde la vita, il portatore dovrà ricondurre, vivo, il cliente e se stesso. Due giorni di discesa nella tempesta, il bivacco notturno in parete, in una piccola grotta, condizioni estreme che il lettore vivrà come in un film; la montagna, terribile e bellissima; l’impossibilità dell’impresa che si sostiene sulla grande piccola esperienza, ora messa alla prova, del più giovane, nel confronto con la montagna e con la forza degli elementi; che fa leva sulla forza morale, sull’imperativo assoluto, sull’orgoglio, che dice il dovere verso chi si è affidato a te – anche quando, in una discesa precipitosa, le mani ormai sanguinanti, sospesi su di una muraglia di neve e di vetrato, il cliente, l’americano “alto quasi due metri, secco come una randellata, sempre silenzioso, che percorreva le Alpi con in mano il cronometro, segnando sulla sua agendina le cime scalate e il tempo impiegato”, impazzito dal freddo, dalla stanchezza, privo di controllo, al limite del congelamento, canta, continua a cantare, incapace di controllare le proprie azioni.
“Ukelele lady like you!” La canzoncina incongrua amplifica il terrore, dice la mente che se ne va, nel momento del confronto, ora sì, vero, in una diversa corsa contro il tempo; e racconta la mente che torna alla propria casa, al proprio mondo, confortante, ai piccoli piaceri.
Giorgio cerca di pensare, e non pensare, al gelo, alla necessità di bivaccare, e superare una notte in cui addormentarsi equivale a morire.
Assisteremo al rientro, finalmente a Chamonix, la strada tra la gente, turisti incuriositi, per raggiungere l’ufficio guide. Gli sguardi importuni. Sapremo i piedi congelati del giovane portatore, la fine possibile, per lui, della professione di guida alpina.
Pietro e Giuseppe sono arrivati a Chamonix. Seguiremo l’organizzazione dei soccorsi, la partenza di Pietro con i volontari che dovranno recuperare il corpo di suo padre rimasto lassù, colpito dalla saetta, immobile nella sua presa sicura; vedremo, ancora una volta, l’impossibilità dell’impresa e i suoi alti costi. Siamo a fine stagione. Il tempo non consente ormai la salita. Si farà ugualmente. Si deve. Poi si vedrà.
L’impresa riuscirà, ma avrà costi elevati.
La seconda parte del romanzo narra la risalita alla vita. Narra la strada, dura, per ripartire. Narra la debolezza, anche la disperazione. Da superare. Narra una comunità, attraverso la vita delle persone che vivono l’esperienza: Pietro Servettaz, Giorgio della Clarissa – i protagonisti – e gli altri che ne condividono la vita, l’amico che non ti molla, la madre, la morosa. E ancora la montagna – da vacche, come si dice. E infine ancora l’arrampicata. La vittoria: su se stessi. La montagna non si vince, si ama, si rispetta, si ascolta, nella sua grande indifferenza a te. Si ringrazia, quando insegna, nella sua alterità assoluta come, nei momenti della vita in cui non si trovano più le forze, occorre sapere che non è così; che è sempre possibile continuare, ancora, e ancora. Finché sarà necessario.
Durante la lettura di questo libro si piange: di un pianto buono, liberatorio, che fa bene.
Questo libro è un capolavoro? Non so. Non credo. È un bel libro. Che è stato molto amato. Che meriterebbe il ritorno sugli scaffali; di tornare tra le mani di molti lettori. Un libro di formazione, a suo modo, sicuramente non scritto con questo intento. Forse, per noi, oggi, ingenuo, carico com’è, anche, di buoni sentimenti – inevitabile, a lettura terminata, riassorbita l’emozione, sentirsi increduli; forse necessario, come mai prima, crederci.
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[i] Les Aiguilles du Dru. Il Petit Dru (m. 3733) e Le Grand Dru (m 3754) sono due vette che fanno parte del Massiccio del Monte Bianco, nel Gruppo dell’Aiguille Verte (m. 4121). Sul Petit Dru saliva la Via Bonatti (il Pilastro Bonatti), ora distrutta dall’ultima delle numerose frane che hanno interessato la parete in anni recenti (2005).