Prima o poi finirà. In questo tempo malsano – e nell’ipotesi, non peregrina, che non se ne stia ancora vedendo la fine – sto costruendomi una piccola idea, che cresce, lenta come questo tempo; che potrebbe persino radicarsi.
L’idea è questa: che se domani esplodesse un liberi tutti – che so, se d’improvviso, nel breve tempo di una settimana, ci giungesse notizia di zero contagiati, zero ricoverati, zero morti, e così in ogni parte del mondo ed ecco, tutto fosse finito, chiuso, dimenticato. E via! Ma quale prudenza! Si torna a vivere! Tutti fuori! – bene, se ciò accadesse, non so. Non credo che uscirei. Non per davvero; e non per prudenza.
Solo perché, a ben vedere, non ne vedrei motivo: per un uscire di casa generico, dico, non giustificato da un preciso obiettivo, bisogno, impegno, piacere mirato, per un qualcosa di non cogente, almeno nel desiderio.
Esploderei di felicità per il recupero della vicinanza ai miei affetti più cari; un balzo in macchina e si parte, direzione figli e nipoti; un salto sul primo aereo, direzione figli e nipoti; una serata con le amiche; la visita, finalmente, all’amica all’ospedale, quella che in questo tempo ci si è trovata, poco dopo un ricovero che sarebbe stato comunque lungo, dovendovi aggiungere l’isolamento dai suoi familiari, dagli amici, un disastro; e poi…Basta così.
Un acquisto da fare? Da dover fare proprio proprio di persona? Si tratterebbe di un’uscita obbligata, non veramente desiderata; o quantomeno non in quanto <uscita>: a rischio di incontrare altri generici, scambiare o non scambiare saluti, come sta, tutti bene a casa? anch’io, certo, ci si vede; a rischio di doversi muovere al ritmo altrui – semafori, attraversamenti pedonali, scusi permette, marciapiede stretto, c’è chi si ferma a guardar vetrine e intralcia e potrei esser io, certo, e dovrei tener conto del mio eventuale intralcio al passo altrui.
Era davvero necessario? Traffico, inquinamento, da produrre e da subire. Togliere l’aria, lo spazio, a chi <deve> muoversi, a chi lavora, ai bambini che, infatti, non vedrò così come non vedevo. Neppure ce ne accorgevamo: niente bambini in città. I bimbi non possiedono titolarità in quello spazio, sono corpi estranei.
Ti ricordi del tempo in cui la mamma mandava te bambina, da sola? Lei stava cucinando ed ecco, mancava il prezzemolo, vai, dì al sior Piero che te ne dia un mazzolino, ma bello verde, e che sia abbastanza; e già che ci sei prendi anche tre mele, tre pesche, due banane e due limoni, ma guarda che i limoni abbiano la foglia, bella verde; di al sior Piero che siano da succo. Prendi mille lire nel cassetto, e attenta al resto.
C’era, al tempo, un uscire-bambino, e un conoscere il tuo spazio per cerchi concentrici, sempre un po’ più in là. Con l’età, ci si addentrava sempre più oltre, e il territorio ti apparteneva già quando arrivò il tempo dei luoghi altri, là dove lo sguardo adulto non ti seguiva più. Avrebbe voluto. Non poteva.
Per i bambini esistono oggi solo luoghi riservati, accoglienti gabbie. Il genitore che li lasciasse uscire soli sarebbe a rischio di denuncia. Perché sì. Perché l’altro è diventato pericoloso; non è più l’altro che, con te, provvedeva a crescere anche il tuo, di figlio, a controllarne il comportamento sulla strada; l’altro adulto-alleato. I bambini che eravamo erano consapevoli di essere, nella strada, controllati a vista da un mondo adulto che pareva, e vai a sapere se lo era davvero, solidale nel compito.
Ma se le cose stanno così, è davvero bello uscire? Se la strada non appartiene più ai bambini, siamo certi che appartenga a noi? Che sia ancora un luogo di vita? La gente che lavora è in auto, o nei luoghi deputati. Non la incontri. In città, solo vecchi e “signore”; e giovani, ragazzi, certo.
Perché li guardi ostile, li senti ostili? Che ci fanno per la strada? Niente? Niente di buono, sicuramente, a quest’ora. Lo senti, il pensiero dei passanti. Ha spessore. Toglie l’aria.
Poi, sì, c’è quell’altra ora – l’happy hour – ed eccoli là. Non sono gli stessi, no, sono altri. Il tuo sguardo è meno ostile ma resta insofferente. Si affollano, bicchiere in mano, fuori del locale (piccolo, all’interno non c’è spazio, non che fuori ci sia un plateatico ma tant’è, loro stanno lì, ammassati; bloccano, intralciano il passaggio e devi scendere dal marciapiede, attenta al traffico! non c’è più rispetto – per i vecchi, per le donne, per le mamme con passeggino, a scelta, fa niente, il succo di tutto è che non c’è più rispetto).
Bambini no: confermo. Scesi dal passeggino, spariscono. Nei loro luoghi deputati. I pochi che si incontrano, tanto accompagnati che più non si può, pure loro intralciano; e non sono di buon umore, per niente. Né loro né l’adulto che li trascina.
La città non è loro. Non vi appartengono. Non la vivono.
Ma poi. Ci vive davvero qualcuno, in città?
Si va a prendere qualcosa. Un caffè. L’aperitivo. In pasticceria con le amiche, meglio una sola, massimo due. Altrimenti che chiacchierata è? Poi, a dire il vero, che chiacchierata è, comunque: certo, il brusìo di fondo copre le nostre parole ad orecchi indiscreti ma insomma, fin lì. Non è la location adatta se non a chiacchiere generiche, del tipo che ne potevi anche, quasi, fare a meno. Tu, in realtà, e proprio oggi, avresti voluto un piccolo tempo di intimità. Desideravi parlare con la tua amica di quella cosa, ma non è possibile. Anche lei sta cercando di raccontarti qualcosa ma: c’è il famoso <altro generico> che si ferma, ti saluta, due parole, ci si vede, e no, niente funziona.
Se ne va. Eccone un altro. Buongiorno dottor Tale! Come va? Professore, da quanto…! Signora, che piacere!
Avete mai osservato? Di massima, se siete donna e pensionata, i titoli spariscono, il <signora> ti ricattura e va pure bene, non è un titolo da poco. Signora e basta, eh! Seguito al più da un <carissima>! Neppure necessario un nome a seguito, come sarebbe per un qualsivoglia sig. Bianchi, sig. Rossi, che mai diverrebbero unicamente un <signore>. Forse non lo meritano.
Per dire: cosa siamo uscite a fare? Per due chiacchiere, insoddisfacenti e, certo, per essere, per l’altro, quell’altro generico, necessario. Da tenere d’occhio.
Sai che da tempo non vedo il tale? Che ne è? Hai notizie?
Si chiama socializzare.
C’è la casa, per l’incontro vero. Per l’appunto. Senza dire che la casa è anche il luogo giusto per il conversare più ampio, a metà tra la confidenza e l’impersonale.
Fuori è meglio? Si fanno incontri? Vero. Anche bello. Anche no: non c’è scelta e c’è, in effetti, il grosso rischio di venir scelti, del genere “Come sta? La trovo bene!” E ti ritrovi ad ascoltare tutto la sua ultima…qualsiasi cosa.
Lo shopping. La libreria. Questo ci sta. In compagnia? Meglio.
Girando tra gli scaffali, una di qua una di là, ci si incrocia, si occhieggiano i rispettivi bottini provvisori – ancora da completare, spesso da ridurre, imperativa qualche rinuncia, qualche rinvio che poi, purtroppo, sarà facilmente a mai più o giù di lì – beh, forse, questo potrei prenderlo io, tu prendi l’altro poi ce li scambiamo. Bello sì.
Due chiacchiere con il libraio. Se in libreria non c’è nessuno, anche qualcosa di più.
A questo punto, ti/vi verrà bene anche quel po’ di shopping di alleggerimento, tipo sta venendo l’estate, potrei prendermi una nuova t-shirt. E farà pure piacere incontrare qualcuno, il vecchio collega, uno dei tanti altri generici, e perché non ci vediamo più? dovremmo trovarci, certo, prima o poi organizzeremo. Ci andrai anche tu ad ascoltare il tale?
Uscire, dunque? Anche sì.
Prima o poi finirà questo tempo ammalato. E gli alibi stanno a zero. Voglio uscire!
C’è questa cosa: che a casa si legge. In santa pace. Salvo scoprire che i libri, senza la gente, la città, senza altri in carne e ossa, come dire, paiono sbiadire!
I libri: sono il mondo: a patto che il mondo ci sia. E lo so che c’è ma, dico, chiede pure di essere toccato, annusato, veduto. Di essere goduto e di essere qualcosa contro cui inveire.
Voglio uscire e, sì, ritrovare quegli altri generici del cavolo che mi riconoscono, mi dicono chi sono, mi stupiscono, mi irritano, di cui mi fa piacere incontrare la gentilezza e la malignità, per poter dar vita alla mia gentilezza e alla mia malignità.
Gli altri: quelli che ti fanno scendere a patti con te. Quelli che, essendoci, giustificano chi sei, danno un senso al tuo limite, riconoscono, o ti propongono, le tue tante facce; quelli che ti dicono <domani>, dicono oggi è martedì, e oggi invece è sabato; oppure sai che è domenica e fuori non c’è nessuno, che tristezza ma qui, ora, è sempre domenica. E non funziona.
Ieri c’era il mercato e se volevi incontrare qualcuno era il posto, e il tempo giusto, magari ci acquistavi anche una T-shirt.
Peccato non si vedano più bambini, non ti arrivi mai una pallonata, cose così.
A casa: a leggere leggere leggere. Scrivere. Scrivere. Non senza il mondo di fuori.
Ho letto, tra le altre cose, un discreto fantasy, streghe, stregoni, Baba Jaga e giù di lì! – e magari ne racconterò o magari no. Ma, si sa, dentro un libro, bello o brutto, finisce che ci trovi qualcosa, anche solo una frase, che ti dice di te, o suggerisce, vai a sapere cosa.
“Se padre Ballo non riusciva a trovare un cosa in un libro, allora per lui quella cosa non poteva esistere; se la trovava in tre libri, allora era la sacrosanta verità”[i]
Non ci sto! Non funziona così. I miei libri hanno bisogno, urgente bisogno, di un fuori. Di altri da toccare. Di una stretta di mano. Persino di quei bacini stupidi, guancia guancia senza toccarsi, tutto fuorché un abbraccio, ma va bene, va bene così.
Ora chiudo e prometto, giurin giurino, che non lo faccio più.
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[i] Naomi Novik, “Cuore oscuro”, Mondadori 2017