Poi, a bancarelle (una, per ora, ultima volta, maledetto lockdown, che già scriverne la parola!) si fa incetta di libri un po’ così: ricordi, cose perdute che è bello ritrovare; libri che si leggeranno interrompendo letture in corso; libri che giaceranno a lungo, in vista, sul tavolo, attendendo il loro momento.
I libri delle bancarelle si comportano così: pazientano, sussurrano cose, si fanno desiderare. Sono libri dispersi, la cui lettura è come se mai fosse davvero avvenuta, troppo lontana; sono libri che ci appartengono ancora, almeno fino a quando non li avremo riletti e ridiventeranno nuovi; libri che non avevamo mai letto ma è come se; libri perduti, che devono tornare a casa, a ricordarci chi eravamo, a consolidare il nostro tempo, a rassicurarci, anche quando non c’è nulla di cui vantarsi a essere noi.
Ci sono anche libri che oggi, rileggendoli, potremmo non esser più in grado di comprendere (quante cose dimenticate, disperse, un tempo nostre, o almeno credute nostre).
Va bene così. Ci sono troppe novità in circolazione, anche bei libri, certo, ma che fanno scorrere ineluttabile la freccia del tempo: e i libri dovrebbero starne fuori.
La bancarella risponde al bisogno, consente di scegliere il <nuovo da ritrovare> e il <nuovo perché mai l’avevi letto in precedenza>; riattualizza un tempo altrimenti brutalmente scaduto.
Bertold Brecht, “Libro di devozioni domestiche”, Einaudi 1965.
Non avevo amato particolarmente questo libro, al tempo suo; ed era sparito.
Si è fatto ritrovare: chissà perché lo ha fatto. Salvo qualche cosa qui e là, non ho mai amato molto di Brecht, in lettura. L’ho sempre considerato gravoso; un uomo programmaticamente desideroso di dispiacere, senza neppure scusarsi.
Lo dico: Una faccia da sberle. Uno che pretende di dirti come vuole essere letto.
“Questo libro di devozioni domestiche è destinato all’uso dei lettori. Non deve essere divorato senza discernimento. (…) Si raccomanda di non leggere troppe pagine tutte in una volta.”
Non male come incipit: in prosa, sotto la voce “Guida all’uso delle singole lezioni”, in apertura dei testi-poesie. E quando mai! Quando mai sarebbe possibile, di un poeta, leggere versi a perdifiato, pagina dopo pagina: per vedere come va a finire?
Bertold Brecht può, dunque (e dico solo che <può>, nel caso, qua e là) stare un po’ sul gozzo. Salvo poi graffiarti il cuore. Lasciandoti irritata con lui a difesa – per poi ritrovarti dolente, quando scoprirai che quei versi – parole concrete, fattuali, legnose – ti sono rimasti dentro come mattoni indigesti di banale realtà, cronaca che si fa corpo e anima; come pensieri su cui ti viene ingiunto di meditare; come esercizi obbligati per la mente – avendoli letti, non potrai più esimerti; memento che ti ricorda di non poterti mai sentire assolto, mai in diritto di condannare – peggio ancora, mai in diritto di assolvere, ergendoti a giudice, quasi ne avessi facoltà.
Fastidioso Bertold Brecht.
Qualcosa ricordavo bene, molto vagamente ma bene; e come non imbattersi nella “Canzone del sabato Santo alla undicesima ora della notte prima di Pasqua”, che già il titolo: un preciso tempo e una precisa ora in cui un preciso sentire, patire, levarsi, giacere, volare e cadere hanno dato prova di sé.
Che vorrà mai dire il fatto che domani sarà Pasqua; che ieri è stato il venerdì di Passione. Che, tra un’ora, inizierà un percorso di resurrezione? Che potremo riprendere a volare? Più o meno? Abbrutiti e maestosi? Non credo. Si tratta solo del fatto che è quell’ora, di quella notte. Particolare?
È stato giusto che questo libro ritornasse a casa con me. Per trovarsi a portata di mano, per venir assunto con parsimonia, in questa mia altra età, altro tempo, altro mondo.
Bertold Brecht
Libro di devozioni domestiche
In: Esercizi spirituali
1.
In primavera sotto un cielo verde e selvaggi
venti innamorati – a una bestia quasi ero ridotto –
io scesi giù nelle nere città,
tappezzato, di dentro, di gelidi motti.
2.
Mi riempii di nere bestie dell’asfalto,
mi riempii di acqua e di clamori.
Ma tutto questo, mio caro, mi ha lasciato freddo,
e rimasi del tutto vuoto e leggero.
3.
Essi fecero dei buchi nelle mie pareti
e, di nuovo, sgusciarono via da me bestemmiando:
dentro non c’era nulla se non spazio e silenzio,
gridavano tra le bestemmie che ero carta e non altro.
4.
Rotolai sogghignando all’ingiù tra le case
fuori all’aperto. Lieve e maestoso il vento
ora correva più rapido fra le mie pareti.
Nevicava ancora. In me ci pioveva dentro.
5.
I poveri grugni di cinici giovanotti
hanno trovato che non c’è nulla dentro di me.
Cinghiali si sono accoppiati in me. Spesso i corvi
dal cielo lattiginoso hanno pisciato in me.
6.
Più debole delle nubi! Più leggero del vento.
Non visibile! Leggero, abbrutito e maestoso come
una poesia delle mie, volavo per il cielo
con una cicogna che filava alquanto più veloce.
Ed ecco giungere Noam Chomsky, “La guerra americana in Asia”, Einaudi 1973. C’è qualche rapporto? Ovvio che no, ma lo potrei ben stabilire io. Per me. Nella <mia> storia.
Ne vale la pena? Lo leggerò? È Noam Chomsky, dopotutto. Conosciamo bene. E forse no: oggi possiedo altri occhi e i ricordi sono la cosa più falsa che ci sia. Sono la narrazione che ci siamo costruiti, per aggiunte e sottrazioni, dopo qualche deviazione, un paio o più di curve pericolose per prendere un’altra strada, forse, solo forse, giusta per noi, per ora, o più comoda, per un qualche tempo.
Ma Noam Chomsky! C’è ancora il suo presente; c’è quel primo incontro con (un altro) lui.
Quel giorno a bancarelle sembrava fatto apposta per i ricordi confittuali. Da tempo non leggo più quest’uomo. Lo scanso proprio, a dirla tutta. Forse ho poco desiderio di trovarmi perfettamente d’accordo su posizioni “massimaliste”, su quelle posizioni là che, peraltro, condivido. (Condivido?)
Forse lo sto evitando ma, come dire, sento, anche, l’appartenenza sua, e mia, ad un altro tempo, proprio mentre lui si immerge in questo nostro.
Me ne sto, confusa, memore di una illusoria passata euforia sulle magnifiche sorti e progressive per la specie umana (miseramente crollate, dagli anni dello strutturalismo cui tutti quelli della mia generazione sono appartenuti, anche non sapendolo); quando i temi del linguaggio e della comunicazione – ma non ricordo più, non bene: com’era quella faccenda della grammatica generativa? – erano sembrati svelare una strada vincente per <capire>, finalmente, l’uomo.
Come si trascorre dallo studio del linguaggio allo studio del <come> il linguaggio costituisca uno strumento nelle mani del potere per mantenere se stesso a danno dei popoli su cui tale potere si esercita?
Non conoscevo questo suo libro: so cos’è accaduto allora; cosa pensavamo stesse accadendo allora. Forse, non proprio. La distanza mostra altre cose?
Beh, ho sempre avuto una certa difficoltà a legare il Noam Chomsky attivista “anarchico” – quanto ho amato Bakunin, nei miei anni adolescenti! Quando con grande sicurezza gioivo del non capire e non saperlo! È stato bello! – con lo scienziato del linguaggio e della comunicazione, che forse non si contraddicono, non so, e oggi è difficile riordinare le idee, gli errori, le acquisizioni (e non è mai bene dire, come stavo per fare, <le verità>).
Così, anche Chomsky, in qualche modo, mi disturba, come se avesse abbandonato la sua ricerca scientifica per darsi – a un tema più importante, forse; o al fallimento e all’abbandono di un sogno (ancora sulle magnifiche sorti e progressive) che la sua generazione aveva offerto alla mia ponendovi a conferma il cappello della scienza; di cui oggi non saprei più parlare (e certo non avrei potuto farlo neanche allora, ma la gioventù ha diritto a qualche falsa sicurezza. Dopotutto, sono false anche quelle dei vecchi).
Dunque, questo libro, perché no. Non si troverà male a casa, con me.
Insieme a Brecht? I tempi ci stanno, ci si può stringere, fare posto: il <figlio> Noam Chomsky (n. 1928) grande vecchio del nostro oggi e il suo giovane <padre> di ieri, Bertold Brecht (1998 – 1956).
Il secolo scorso è stato davvero breve, da un certo punto di vista; un tempo in cui padri e figli hanno confuso le loro età. I loro libri, che riformulano il tempo; che se ne fottono bellamente di quella storia del suo dover essere lineare – una freccia, che tutto lascia alle spalle.
Un altro incontro:
John Steinbeck (1902 – 1968), “Al dio sconosciuto”, Oscar Mondadori 1970
E che ne dite di:
Edmund Husserl (1859 – 1938), “Il bambino. La genesi del sentire e del conoscere l’altro”, Fattore umano edizioni 2019. Traduzione, introduzione, analisi del testo e commento di Angela Ales Bello. Scritto nel 1935,è un libro sconosciuto e inatteso, almeno per me, del padre della fenomenologia.
È uno strano mondo la bancarella, disordinato come la realtà dei tanti mondi che, senza saperlo, viviamo.
Altri libri si sono accumulati. Libri letti, libri da leggere, letture sospese, per momento sbagliato, per richiami impellenti da altri libri; per desiderio di fuga.
C’è in ballo anche il Premio Strega di cui, per la verità, non vorrei curarmi ma che ha, tra i libri selezionati, il libro che sto leggendo e apprezzando:
Emanuele Trevi, “Due vite”, Neri Pozza 2021. A giorni, cercherò di raccontarne qualcosa.
Per il resto, rientrata dalle bancarelle, dopo un non breve tuffo in ”Libro di devozioni domestiche” di Brecht, dovendomi riprendere, mi sono rifugiata a trascorrere qualche ora in montagna, sulle Ramptop, zona montuosa di Mondo Disco, in compagnia di Nonnina Weatherwax, la mia strega e pedagogista preferita, nonché dei maghi dell’Università Invisibile, dove si trova una non comune Biblioteca.
Da una nota, ho ricavato quanto segue (e ditemi se è poco):
Lo studio delle Scritture Invisibili era una nuova disciplina resa disponibile dalla scoperta della natura bidirezionale dello Spazio Biblioteca. La Matematica Taumica è complessa ma alla fine si riassume nel fatto che tutti i libri, ovunque, hanno effetto sugli altri libri. È evidente: i libri ispirano altri libri scritti nel futuro e ne citano altri scritti nel passato. Ma la Teoria Generale** dello Spazio B suggerisce che in quel caso i contenuti del libro <non ancora scritto> si possono dedurre dai libri attualmente esistenti.
**Esiste anche una Teoria Speciale, ma non gliene importa niente a nessuno perché è evidentemente gas di palude.[i]
[i] Terry Pratchett, “Streghe di una notte di mezza estate”, nota n. 7