Nessuno verrà perduto

Un libro atipico e suggestivo: la storia – parte di una storia – di due vite che hanno prematuramente incontrato la propria fine, essendo state parte della vita del narratore; e che da questo punto di vista verranno narrate.

Questo libro (un non-romanzo. Una biografia? Un’autobiografia?) è il racconto di un’amicizia a tre, che ha segnato la vita adulta di Emanuele Trevi per la morte improvvisa di Rocco Carbone, era il 2008, all’età di quarantasei anni, seguita a un banale incidente in motorino; e con la morte invece tragicamente attesa, era il 2016, causa SLA, della sessantenne Pia Pera.

Non ho mai letto alcuna opera di Rocco Carbone (lo leggerò? Non subito, credo. Probabilmente, mi rivolgerò invece a “Sogni e favole”, di Emanuele Trevi, di cui questa “Due vite” è la prima opera che ho letto).

Pia Pera, di cui mi erano piaciuti, al tempo, i racconti di “La bellezza dell’asino”, (Marsilio 1992, che potrei ben rileggere) mi ha incatenato a sé con il suo ultimo scritto-diario, Al giardino ancora non l’ho detto”. È, quest’ultimo, un libro che non può non incatenare a sé chiunque lo legga: un testamento di vita, diario del proprio percorso ad incontrare la propria fine, difficile e dolorosa; un’opera dalla scrittura bellissima, accurata e serena anche nella disperazione, che contiene e mostra la vita, nella sua interezza, che come tale contiene ed include anche l’esperienza, il sentimento, totalmente vitali, della propria fine.

Pia Pera chiuderà il suo ultimo libro cedendo a Robert Stevenson, la voce per dirci le sue ultime parole:

“(…)

Ma non vi pare brutto,

Col cielo così chiaro e azzurro,

Quando si vorrebbe tanto giocare,

Dovere andare a letto di giorno?”

In “Due vite” il narratore ci racconta, dunque, la parte di due storie di vita e di produzione artistica, da lui e con lui condivisa, di due amici carissimi; e racconta, implicitamente, la propria perdita.

Pia Pera

La sua sarà, sotto questo profilo, una storia nascosta, un racconto sottotraccia sul piano dell’apparire in prima persona: ne risulterà tuttavia un libro che narra, in trasparenza, con discrezione (in modo, per così dire, “riluttante”; e dunque con grande forza di penetrazione), l’esperienza di morte che si vive quando qualcuno che era parte di noi ci lascia.

Nelle pagine di questa storia il proscenio verrà sempre lasciato, di volta in volta, ai due amici scomparsi; alle ore condivise; alle esperienze; al conflitto, con Rocco, e alla sua risoluzione (che ogni vera amicizia conosce).

Il lettore incontrerà gli anni di vita attiva di due scrittori molto particolari, che hanno fatto della loro vita, integrata alle loro creazioni letterarie, un’opera d’arte; incontrerà due vite nelle quali la scrittura, mezzo di comunicazione e non fine in sé, non ha assorbito totalmente il bisogno di creazione che ha segnato la loro esistenza; due storie che hanno espresso con le loro scelte di vita quel bisogno.

Il lettore incontrerà tuttavia, insieme, defilato, sottotraccia, l’universale del percorso di elaborazione del lutto che ognuno, e ognuno a suo modo, sperimenta quando accade di perdere, con l’altro, una parte di sé; incontrerà la fatica e la necessità di riemergere dalla perdita diversi, nuovi, altri. Capaci, ancora, di sentirci integri. Di perseguire un nostro (nuovo?) progetto di vita. Di ricercare, come tutti, come diritto-dovere, una nostra piccola o grande felicità.

Ed è qui che questo libro si rivela prezioso. Non solo nel riuscire a restituirci – era certo il progetto da cui è nato – due figure importanti del panorama letterario italiano del secondo ‘900; poco note, forse; due artisti della vita, che l’hanno saputa trasfondere nella loro scrittura.

Rocco Carbone

Emanuele Trevi ci consegna un libro che, pur nel raggiungimento dell’obiettivo, conduce il lettore a riconoscersi in quel vissuto; a entrare nel processo che porta a riconoscere il proprio essere relazione; e a ritrovare, nella relazione, l’esperienza composita, non monadica, del proprio sé, della propria identità.

Le pagine di questo libro condurranno ognuno di noi ad esplorare il percorso che, sperimentata, con la morte dell’altro, la mutilazione del proprio sé, dev’essere compiuto per poterci ricostruire; a partire dal dover salvare la persistenza di coloro che ci hanno lasciato, offrendo loro una nuova forma di vita.

In esergo al libro, quasi una indicazione di lettura vincolante, un brano di una lettera di Cristina Campo a Gianfranco Draghi del febbraio 1959:

“Quanto ad esser felici, questo è il terribilmente difficile, estenuante. Come portare in bilico sulla testa una preziosa pagoda, tutta di vetro soffiato, adorna di campanelli e di fragili fiamme accese; e continuare a compiere ora per ora i mille oscuri e pesanti movimenti della giornata senza che un lumicino si spenga, che un campanello dia una nota turbata.”

Non una biografia, dunque; non un’autobiografia, pure se, da un certo punto di vista, il narratore ci avrà raccontato come, nella vita di ognuno di noi, la morte di chi ci è vicino porti via con sé la forma di quell’istanza che la nostra modernità chiama <io>, che è il nostro <sé>, la nostra interezza, davvero difficile da definire, che muta di momento in momento.

Sarà, dunque, un’amicizia la protagonista del libro? Che ha formato, per i suoi componenti, una estensione del sé; che la morte ha frantumato?

Chi muore, in quanti e quanto si muore, quando qualcuno ci lascia?

E allora, che fare? Come salvare una nicchia del tempo, occupata da due interpreti in relazione tra loro e che ha avuto, nella diversità delle loro scelte di vita, un terzo lato che, per preservare la propria integrità, ha dovuto riportare in vita quell’essere (stato) tre senza cui potrebbe frantumarsi?

Lo scriverne è sicuramente un modo.

Rocco Carbone: “Era una di quelle persone destinate ad assomigliare, sempre più con l’andare del tempo, al proprio nome. Fenomeno inspiegabile ma non così raro. <Rocco Carbone> suona, in effetti, come una perizia geologica. E molti lati del suo carattere per niente facile suggerivano un’ostinazione, una rigidità da regno minerale. A patto di ricordare, con i vecchi alchimisti, che non esiste in natura niente di più <psichico> delle pietre e dei metalli”

Pia Pera: “Nel fondo dell’anima di Pia, anche nei momenti più difficili e disperati, resisteva sempre una vocazione inestirpabile ad accudire, proteggere – esseri umani, animali, vegetali. (…) quando fare il bene è una cosa che letteralmente <ti scappa>, mentre nemmeno ci pensi (…)

Eccessiva nel suo modo di pensare, di parlare, di ridere e anche di intrecciare un’amicizia.

(…) era anche timida, sicuramente. Come è possibile che conteniamo in noi tante cose così disarmoniche e spaiate, manco fossimo vecchi cassetti dove le cose si accumulano alla rinfusa, senza un criterio.”

C’è l’elemento del rimorso, in queste pagine, di cui occorre tener conto – e come potrebbe non esserci l’esperienza comune della parola non detta quando esisteva il tempo per dirla, o della parola detta che non potrà essere più revocata; il gesto mancato, l’assenza o la presenza impropria, da far convivere con un tempo divenuto assente – e l’elemento di dover agire un riequilibrio capace di risolversi in una ricomposta serenità del rapporto.

Emanuele Trevi

C’è una storia, dunque, in questo libro; senza che sia vincolante, per il lettore, il fatto che i due autori di cui narra appartengano già al suo personale Panteon letterario. Verrà voglia di leggerli? Certo; oppure, anche, o solo forse.

Ci avranno incuriosito la loro storia di vita, i caratteri, le idealità che li guidavano, le esperienze condivise, pur essendoci estranei.

Non varrà, per questo libro, ciò che solitamente avviene per le biografie, o le autobiografie, vale a dire che l’interesse del lettore si accenda nella misura in cui è per lui interessante, e noto, il protagonista, la cui storia si desidera conoscere.

È, questo, un libro che si legge con piacere e partecipazione per la storia che racconta, di un’amicizia, di progetti; così come di luoghi, di incontri. Ma non solo.

È un libro che, trascendendo tutto questo, attinge – so che mi ripeto – un universale della condizione umana, tale per cui il lettore ritroverà, nel mentre incontra Rocco, nel mentre ascolta Pia, una <propria> storia vissuta, la possibilità di recuperare, a sua volta, pezzi dei tanti sé che, con il trascorrere degli anni, da che si abbia consapevolezza di sé, ognuno ha lasciato sul proprio percorso; avendo trovato un proprio modo, uno dei tanti, del tenere presso di sé chi ci ha lasciato, per non frantumarsi.

Ciò che, soprattutto, legherà il lettore a queste pagine, sarà proprio l’indicazione, e il materializzarsi di un percorso, con la possibilità di accedervi, ad ognuno il proprio, per saldare alla vita, attraverso il ricordo e le opere (un libro, un figlio, un giardino, un albero, una risata) noi stessi e coloro che sono (stati) parte di noi.

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