Settembre: è (quasi) tempo di migrare verso altre letture

Il 22 agosto scorso è morto, all’età di 84 anni, lo scrittore giornalista Peter Opkirk, l’autore de “Il Grande Gioco. Non so perché, la notizia mi ha provocato, con il dispiacere, uno forma di stupore. Certo, era anziano, ma in qualche modo, aspettavo inconsapevolmente la sua parola per leggere gli eventi cui stiamo assistendo ora, mentre…il gioco continua.

E mi viene in mente, sono ormai passati sette anni dalla morte di Ryzard Kapuscinski. Un’altra voce che ci raccontava, che mostrava il mondo e il tempo. Che continua a parlare nei suoi libri. Ancora da leggere e rileggere.

Parentesi: Tra i suoi tanti, tutti bellissimi, libri, se non avete ancora letto “In viaggio con Erodoto” è il momento di farlo. Poi leggerete sicuramente gli altri.

E la mia riflessione, cui ho accennato nell’ultima chiacchierata su ciò che ho letto e che sto leggendo, mi ha mostrato, pensando a Peter Opkirk, almeno uno dei fili conduttori nelle mie letture. Il filo che, senza averci riflettuto, cerca nella lettura, nei romanzi, in storie di tempi diversi, una via per comprendere il tempo in cui vivo e le cose che succedono. Qui ed oggi. In questo momento.

Ho ripensato a quanto il libro di Opkirk mi ha fatto guardare, cercare, sulle carte geografiche, i luoghi di quella storia; quanto ho rimuginato, e ricercato, per rinverdire ricordi di libri letti, di… non so da dove venissero le confuse conoscenze che mi ritrovavo su quelle zone del mondo, informazioni incerte in cui si mescolavano l’impero mongolo, Gengis Kahn, Tamerlano, i Califfati, e chissà cos’altro. Poco più di nomi. Su tutto, il Kim di Kipling ovviamente. E’ stato entusiasmante rovistare tra pagine e ricordi.

Ed è stato illuminante sull’oggi. Poi, certo, ho cercato di recensire il libro rimanendo sulle cose, cercando di stare ai fatti, quelli della storia ufficiale (se si può dire così). Non ci ho messo, come avrei desiderato di saper fare, tutto il fascino e il pot pourri di fatti, leggende, curiosità, confusione che quel libro mi ha suscitato. Ero in preda ad una grande sensazione di imparità rispetto alla dimensione e alla complessità del tema.

Ero giunta a rileggere Il Grande Gioco provenendo dal recensire due libri, di nicchia, se vogliamo dire così: “Adriatico insanguinato” e “La luce di Ragusa” di Cristiano Caracci. Vale a dire, ero reduce dall’aver avvicinato la Costantinopoli della fine del XIV secolo, e i Balcani, e Istanbul del XVII secolo. C’è stata anche la rilettura di Il mio nome è rosso, di Pamuk, e uno sguardo nella Istanbul del XVI secolo. Tutto ha avuto a che fare con quel filo conduttore non saputo. Che è venuto così. Leggendo.

E’ uno strano filo, d’accordo, conduce in tondo, non si sa dove vada a parare. Ma conduce inevitabilmente i pensieri sull’oggi, sulle cose che sono successe, che stanno succedendo, in quella stessa vaga parte del mondo, che se poi è altrove fa lo stesso. Non voglio certo concludere un pensiero come questo, sarebbe come dire che ho in testa qualcosa di chiaro e non mi pare il caso.

Solo una cosa, questa sì. Leggere non è solo un’attività che dà piacere; leggere, nel significato di leggere nel tempo libero, leggere come fare quella cosa che si fatica a trovare il tempo, quella cosa che è regalarsi del tempo, ecco, quella cosa così, è la sola cosa al mondo che mi pare di poter fare per capire, senza neanche sapere bene che cosa.

Leggere è appropriarsi del pensiero creativo del mondo, di tutti i tempi, di un pensiero che è, in buona parte, fantasia, ma ci dice cose che non avremmo trovato cercandole, lungo la strada segnata dal sapere cosa si cerca (e dunque anche dal sapere già la cosa).

Nel frattempo, ho terminato la lettura del romanzo di Werfel, “I quaranta giorni del Mussa Dagh”, il suo capolavoro. Sarà uno dei prossimi, se non il prossimo, libro di cui parlerò, certamente, ma l’impatto di questa lettura è stato molto forte e mi trovo a sentir la necessità di parlare, in qualche modo, per quel che posso, dei fatti storici che sono narrati, sia pure in forma romanzata, nel libro: la resistenza alla deportazione turca nel 1915, condotta dagli abitanti di sette villaggi armeni, sul Mussa Dagh, fino al loro salvataggio da parte di una nave francese. Come farlo, non so. Devo pensare.

E anche con Werfel vedo quel filo che continua a dipanarsi sulle tracce dell’oggi.

Non so, difficile dire se questi libri, e l’intrecciarsi dei pensieri che portano, aiutino qui ed ora a capire qualcosa di più. Magari è solo una forma di scaramanzia, è illudersi che capire significhi aver potere sulle cose, controllarle. Che, se poi il controllo su ciò che avviene nessuno ce l’ha, è lo stesso. Magari tutto questo è solo nella mia testa.

È ora di cambiare. Ci sono altri pensieri. E altri generi di lettura. E altri fili da annodare?

E anche se mi viene la voglia di rileggere Kim, prometto che non scaricherò qui i risultati delle mie reminiscenze infantili. O dei miei attacchi di infantilismo. Almeno non troppo. Mi domando, tuttavia, che effetto potrà fare una lettura adulta di quel libro. Magari darò un’occhiata alle prime pagine. Solo per me.

Tra parentesi: ho finito di leggere “Mine-Haha, ovvero Dell’educazione fisica delle fanciulle”, di Franz Wedekind. La cosa certa è che dovrò rileggerlo.