Abraham B. Yehoshua, «La comparsa», traduzione di Alessandra Shomroni, Einaudi 2014
Ho letto alcuni mesi fa questo bellissimo romanzo di Yehoshua, non osando scriverne senza prima averlo lasciato deporre, dentro di me, e averlo, a tempo debito, riletto. Sapendo che lo rileggerò ancora.
È un romanzo, a una prima lettura, piacevole, che si gusta come una compagnia, una conversazione, un brano musicale; ci accompagna, senza sforzo, a conoscere una donna, e lo fa rendendo immediatamente percepibile il potervi disseppellire una grande ricchezza di letture, tante domande, su di sé e sull’altro. Si cammina, per le strade di Gerusalemme, alla ricerca del conoscere l’altro e del conoscersi, incontrando la città, la gente, i cambiamenti.
Di pagina in pagina, ma anche di lettura in lettura, è possibile aprire nuovi varchi, possibilità; che fanno star bene perché, qui, la sofferenza, la fatica del vivere e del trovare il proprio posto nel mondo, la ricchezza di ciò che diamo e prendiamo, saranno tali da far risultare bello il percorso.
Yehoshua ci regala un personaggio femminile di grande spessore, che emerge a poco a poco, passando con levità da un ruolo di “comparsa” al “comparire” come donna integra, nella legittimità delle sue scelte, che pongono (e le pongono) domande.
Noga, una quarantaduenne divorziata, arpista nell’orchestra di Arnhem, in Olanda, ritorna a Gerusalemme, sua città natale, dove vive ancora la madre, che è rimasta sola dopo la morte del marito avvenuta da poco. Ha in programma di fermarsi tre mesi.
Noga è una donna che ha scelto di non avere figli, la cui scelta ha portato al divorzio da Uriah, il marito, amato e che la amava.
Ha un fratello, Honi, sposato e padre di tre figli, che vive a Tel Aviv. Honi desidera convincere la madre – una settantacinquenne autonoma e capace ma che, rimasta sola, non ha alcun appoggio nella sua vecchia casa di Gerusalemme – a traferirsi in un pensionato per anziani, a Tel Aviv, per poter essere vicino a lui che, sapendola sola e lontana, si preoccupa. Ha convinto la madre a fare tre mesi di prova in un pensionato, a Tel Aviv, dove le verrà messo a disposizione un appartamentino; ha bisogno che, nel corso dei tre mesi, la sorella occupi la casa di famiglia a Gerusalemme, per far sentire sicura la madre del ritrovarla, qualora scegliesse di non rinunciarvi.
Noga accetta. Vivrà, senza la propria arpa, per tre mesi nella casa della propria infanzia, dove molto è cambiato ma ciò che rimane richiama una storia di vita, interrotta e non affrontata; illusoriamente, forse, risolta con la fuga. Una storia che ritorna, si riapre, fa parlare gli oggetti, le cose che non ricordava; e che non ricordava di aver lasciato.
«Vedrai quanta roba hai lasciato. Vecchi giocattoli, quaderni di scuola e persino vestiti. E io ho tirato fuori dal ripostiglio la tua piccola arpa, quella che ti aveva comprato papà. Dai un’occhiata e poi decidi tu cosa buttare.» Tutto, mentre le cose “buttate” ritornano.
Il fratello, perché sia occupata e, anche, perché compensi il perduto guadagno di quei tre mesi, le trova degli ingaggi come comparsa. E mentre, seguendo Noga, veniamo condotti ad incontrare gente, a percorrere i quartieri della città; mentre ci chiediamo chi sia questa donna, di cui lentamente, quasi con pudore, viene costruita la storia; mentre i ruoli rappresentati si sovrappongono agli incontri e ai luoghi di una Gerusalemme conosciuta-da ritrovare, il ruolo di comparsa sembra concretare la vita di Noga. Nel mentre il tema – la scelta di non avere figli – che il ritorno a casa ha portato con sé, chiede, senza che ne venga discussa la legittimità, di venir posto.
Il matrimonio fallito con Uriah; un amore, in lui sempre presente nonostante la nuova famiglia, i figli, che la nuova moglie gli ha dato; il desiderio di lui per quel figlio non avuto da Noga.
Il tema – il femminile, l’essere madre della donna – si sviluppa, negli incontri, nei ricordi, e nel presente di un’età che sente avvicinarsi il limite per una scelta. E il misurarsi, dell’autore, con tale tema, riesce a dirci una domanda maschile sulla femminilità senza intriderla del proprio sguardo, senza chiedere risposta, senza imporre il proprio bisogno, ma solo, lievemente, lasciandolo emergere come desiderio – dunque “suo”, che non invade l’altro – che la donna sia colei che dà, a sé e all’uomo, un figlio.
Noga verrà seguita nella sua domanda su di sé, profonda, inespressa, respinta. Mentre, nella sofferenza di dover trascorrere tre mesi senza suonare, l’attesa, al rientro, di affrontare «Sinfonia fantastica» di Berlioz (la sua vita olandese, che interseca gli incontri a Gerusalemme) la difende.
L’ultima parte del libro vedrà Noga, rientrata nella sua casa di Arnhem, riprendere la sua arpa. E la musica, che a Gerusalemme, come assenza, risultava dissonante, elemento aggiunto e apparentemente sconnesso dall’esperienza, colora tutto e guida ora il tema.
La sorpresa. Una tournée in Giappone; l’abbandono del progetto di suonare Berlioz, per sostituirlo con «Danse sacrée et danse profane» di Debussy; e, sempre di Debussy, sarà in programma «La mer» e, per lei, il primo piano, la parte di prima arpa, in un duetto di arpe che si parlano.
Ora è chiaro: tutto il romanzo aveva avuto un sottofondo musicale, un richiamo ad ascoltare la storia in un altro linguaggio, essendo la parola, sola, impari al compito. Servono il ritmo, le sonorità, la completezza discorsiva di un concerto. Noga appare: a sé e al lettore – nel tema di «La mer», nel simbolismo dell’acqua, del suo movimento, della sua forza; nel richiamo che la lingua francese offre, attraverso l’identità di suono di «La mer», il mare e «La mère», la madre; nel divenire protagonista, nella sua musica; nella sua “comparsa” di fronte a se stessa.
Il romanzo si avvia alla sua ultima parte, al poter porre una domanda, una ricerca, un’apertura di orizzonte; al duetto, tra due musicisti, un uomo e una donna, tra due alterità estreme – la giovane prima arpista gerosolimitana olandese e il vecchio maestro d’arpa giapponene che le sarà partner; tra un padre e una figlia; tra diversi assoluti, protagonisti, che si incontreranno «per dare al mare voce e colore».
È una storia che si legge con affetto e tranquillità, senza fatica; una storia che si desidera riprendere perché, senza parere, non ti ha lasciato e ne vieni legato e legata mentre senti che c’è una domanda, femminile, e una domanda maschile, della differenza e della complementarietà, che ti fa bene: perché sostenuta dal rispetto dello sguardo su qualcosa-qualcuno che è altro da me e dal quale sento di dover essere completato; perché appartiene a me e non sono in grado di essere forzata a una risposta, che sta nel possibile, solo se l’altro vorrà, se io comprenderò, se verrà lasciato il tempo, ad ambedue, di porla.
E naturalmente c’è la storia, i fatti, le cose che accadono, gli incontri. La trama, di una sapienza nascosta. Per questo, dovrete leggere il libro. Un grande romanzo. Un grande concerto: e Yehoshua, in questo libro, un grande direttore d’orchestra.