Ian McEwan, “Miele”, Einaudi 2012
Con questo libro si entra in una spy story molto particolare che mostra la faccia burocratica del British Security Service, le ragazze dell’archivio, le dattilografe che trascrivono le informative degli agenti, un mondo di noia e piccole chiacchiere al bar tra ragazze malpagate che cercano, tra gli agenti, l’uomo da sposare per poter lasciare un lavoro deprimente che offre niente più della sopravvivenza. Un ambiente di lavoro che burocratizza la richiesta di serietà, segretezza, compostezza nei comportamenti mentre, dietro e a fianco di quei rapporti da trascrivere e archiviare, appena fuori dagli uffici, brulica la vita normale.
Le attività cosiddette operative sono di fatto riservate, salvo piccole eccezioni di scarsa importanza, agli uomini e di tutta l’operatività niente trapela, se non un vago sentore, appena lievemente eccitante.
A tutto ciò Serena Frame, la protagonista e voce narrante, giovane ragazza fino ad allora vissuta nella totale protezione della famiglia, arriverà provenendo da una storia personale fatta di tante sfaccettature, e da una storia d’amore con un uomo molto più anziano di lei, professore di Storia all’università e con un passato, o un presente, nei servizi segreti. Il professore, prima che la loro storia finisca, la preparerà all’entrata nei ruoli del MI5, uscendo dalla sua vita prima che ciò si realizzi. E lei, una laurea in matematica strappata con fatica e un grande amore per la lettura, entrerà, inesperta e fuori luogo, in quell’ambiente, iniziando la propria vita adulta in un lavoro demotivante, con un reddito appena sufficiente a condividere un alloggio con altre ragazze per sostenerne i costi.
Le storie, i personaggi, l’amica che verrà cacciata dal servizio, il collega che la corteggia e che sembra aprire per lei delle possibilità di avanzamento, si intrecciano, attraverso la voce di Serena, fino ad arrivare al desiderato incarico operativo, prefigurato nell’incipit:
“Mi chiamo Serena Frome (che fa rima con ‘plume’) e poco meno di quarant’anni fa mi mandarono in missione segreta per il British Security Service. Non ne sono tornata illesa. Mi scaricarono nel giro di diciotto mesi, dopo che ebbi screditato me e distrutto il mio amante, che pure non fu estraneo alla propria rovina.”
L’incarico la porrà in relazione con un giovane scrittore di grande talento, Tom H. Haley, che lei doveva, senza che lui ne divenisse consapevole, rendere utilizzabile da parte del MI5 in attività culturali anticomuniste.
Inopportuno raccontare la storia che di per sé, e in apparenza, è un classico in cui lui e lei si incontrano, ci sono ostacoli ma alla fine, ecco, no, occorre dire che il lieto fine obbligatorio e standard c’è, se così si decide che sia, ma decisamente irrituale.
Il punto, i punti, che rendono questo un grande romanzo, sono altri. Sono il gioco, il mascheramento/disvelamento che costantemente sconfinano e si evidenziano là dove non erano previsti; sono il gioco che, ad ogni piccolo disvelamento, opera attraverso inversioni delle parti – chi narra cosa e come entrano le narrazioni, le trame, dentro la narrazione principale, come si sviluppano, come si legano all’imbroglio di fondo che segna la relazione tra Serena e il suo obiettivo, tra Serena e il suo coinvolgimento amoroso, e operativo, con Tom e con la sua opera di scrittore emergente. Sono i personaggi secondari che entrano nella narrazione interrompendo lo schema della classica love story e inserendo punti di vista e di lettura divergenti; sono le trame dei racconti in germe che Tom propone e che nascondono indizi.
C’è il punto in cui McEwan sembra si diverta con noi, in questo romanzo, offrendo una sciarada in modo non dichiarato, chi vuole capire capisca e lui starà a vedere, avendo dichiarato il proprio gioco.
“Voglio che mi racconti qualcosa…qualcosa di interessante, no, di controintuitivo, di paradossale. Mi devi un bel racconto matematico.”
E Serena, che non comprenderà, nella pratica del suo lavoro e della relazione con Tom, il paradosso in cui in cui sta cadendo, proporrà un gioco delle probabilità che lui, che invece a un certo punto comprenderà e saprà giocare il paradosso della loro relazione, non riuscirà a risolvere sul piano teorico, evitando la logica apparente per la quale il senso comune porta a una scelta perdente. Chi sta giocando con chi?
Tutto questo fa del romanzo un rompicapo, proponendo tuttavia un livello base di lettura coerente con la struttura della spy story e della love story, rispettando anche il canone richiesto di un, più o meno, lieto fine: la voce narrante non esce dal canone, e solo l’incipit, se ci si ritorna, dice che tale voce, l’autore, sa. Ma non dichiara, semplicemente racconta, lascia che parli la concatenazione dei fatti fingendo che <i fatti> abbiano un significato univoco.
Un libro da leggere lentamente, di cui gustare il ritornare sulle parole, sul capitolo, da centellinare con calma, anche attraverso una lettura che fa aggio su una scrittura pulita, che scorre uguale a se stessa, riposante, in cui McEwan mostra la sua grande maestria ottenendo di mascherare, così, i diversi livelli e rendere il gioco estremamente accattivante. Perché, in ogni modo, il gioco si sente, si coglie, quasi subito, senza per questo che si possa non rimanere sorpresi, molto sorpresi, al disvelamento finale.
Ma, al di là di questo, al di là di una interessante costruzione del racconto, ciò che, per me, sancisce la grandezza di questo romanzo, è la voce narrante: una voce femminile senza una sola sbavatura, che, pur consentendo che si senta, anche, la voce del narratore (la voce di Tom Haley, in realtà, che chiuderà la storia) è perfettamente espressiva del personaggio e del genere, una ragazza di vent’anni, negli anni settanta, nell’ambiente di famiglia, il padre pastore anglicano, la madre moglie perfetta che cura la carriere e sostiene il ruolo nella comunità del marito, ma sogna e nasconde speranze diverse per la figlia.
Bene, la voce narrante di questo romanzo è, senza cedimenti, la voce di quella ragazza, dentro la polifonia di altre voci, non ultima quella, non dichiarata, dell’autore. Questa perfetta voce femminile ci trattiene in una lettura che maschera, inizialmente, la struttura e il gioco che sostengono la storia e che ne fanno desiderare la rilettura.
Ultimo indizio: indovinatissima, per questo romanzo, la citazione in esergo: “Se almeno avessi incontrato, nelle mie ricerche, una persona chiaramente malvagia” (Timothy Garton Ash, Il dossier)