La Donna, i libri.

Shirin Ebadi, Nobel per la pace 2003
Shirin Ebadi, iraniana. Scrittrice, avvocato, Nobel per la pace 2003

Al momento sto, dunque, leggendo Calvino; una lettura di oggi e di un ieri ormai lontano ma che si ricongiunge, oggi come allora, all’esperienza di essere una donna che legge (ne ho parlato nel precedente post) e che, al tempo, è stata sostenuta nel diventare una lettrice: un fatto non così scontato, allora, anche se oggi, si dice, le donne leggono più degli uomini.

A partire da questa lettura, e da questi pensieri, stanno scaturendo queste righe che, forse, parranno “fuori tema”, come si diceva al tempo della scuola. Pure, io non credo lo siano, poiché la lettura costituisce una relazione al reale. Sono, forse, solo prolegomeni incongrui ad un pensiero che fatica a dipanarsi.

Le donne e i libri, dunque.

Nella nostra società, le donne sono forti lettrici: pure, NON assumiamo mai come pertinente il fatto che, nella maggior parte del mondo, le donne non leggono; che forse la maggior parte delle donne al mondo non legge.

Questo vale anche per gli uomini – mi direte. Ma non è così. Si tratta di due fenomeni distinti: LE DONNE, in una grande parte del mondo, NON SONO AUTORIZZATE A LEGGERE. Ex lege o di fatto. Dunque, si tratta di altra cosa.

In ogni società, sono poche le cose della vita non soggette a una relazione, a un vincolo di qualche tipo che le porta a esistere solo in quanto scritte. Perché sta tutto qui, no? Da secoli (millenni?) il reale viene sancito dalla scrittura. Volendo parafrasare: Ciò che è reale (ciò che ha forza di realtà) è scritto. Perché ciò che si considera (ciò che è) razionale viene asseverato in forma scritta.

Ne consegue che chi non legge ha una relazione con la realtà quantomeno fragile; ha difficoltà a esercitare un controllo sul proprio mondo, è in balìa del dominio altrui. E la domanda diventa: è vero il reciproco? La lettura, la capacità di “leggere”, in senso proprio, la realtà, comporta necessariamente il controllo?

Dunque, la lettura ha a che fare con il mondo in cui viviamo; vi ha a che fare l’appartenenza, in quanto lettrice-donna, a un insieme che, in parte significativa, e attraverso un percorso culturalmente normato, non è autorizzato alla lettura; ha a che fare con l’essere lettori-uomini, in ogni parte del mondo titolari del diritto/dovere a leggere in quanto maschi della specie che, storicamente e culturalmente, affermano l’appartenenza al proprio insieme definendo il femminile per negazione (essendo ininfluente l’adesione o meno del singolo a questa norma).

Oggi, è pure vero, ben poco sembra accomunare la condizione di vita delle donne cittadine di stati a democrazia avanzata a quella di un forse maggioritario resto del mondo femminile. Si tratta tuttavia di un ben poco che è ancora molto; che mostra il permanere, neppure tanto sotto traccia, del paradigma sociale che definisce la donna per negazione.

Ed ecco che i giornali italiani riportano la notizia dell’ultimo “femminicidio” – termine orrendo che rischia di far ascrivere l’evento ad un genere, sia pure delittuoso, ma che non fa parte dello stesso universo di significato dell’omicidio. Non in quanto meno grave, intendiamoci; in quanto “altro da…”; che dunque va considerato a parte – cosa che solitamente significa: non ora, in un altro momento, ci si deve pensare bene. Nel frattempo deploriamo.

E l’ONU ha richiamato l’Italia nel merito di questo problema, invitandola a fare di più (qui).

Si tratta di un fenomeno che non colpisce aree del femminile socialmente deprivate, che appare trasversale alle appartenenze sociali: ne deriva che il fattore scolarizzazione femminile, e il suo esito, la lettura, non hanno modificato alla radice lo status di minorità della donna.

Stop violence against Women
Da: ilsitodelledonne.it

E infatti, l’allarme sociale, generalizzato, non scatta. Nel concreto, il fenomeno viene rimosso. Sembra non riguardare il mondo in cui ognuno e ognuna di noi vive. Vige l’idea che, nel nostro mondo, le donne possano vivere senza la fatica di aver sempre presente la propria condizione di rischio. O che il doverla aver sempre presente sia ovvio e dovuto.

Facciamo un passo a lato, e vediamo attraverso quale meccanismo il nostro mondo, le nostre società, tutte, e in tutti i tempi, hanno “costruito dei nemici”, per dirla con Amartya Sen (qui).

Neri, ebrei, comunisti, si diceva; ma anche rossi di capelli, zingari, girovaghi e giostrai, persone con gli occhi troppo ravvicinati; gay, lesbiche, transessuali (per i cui destini, almeno nel mondo occidentale, sembra si intravveda un raggio di luce, ma non è il caso di farci troppo conto e fidarsi).

Tutte situazioni per le quali una caratteristica, un’appartenenza a un insieme assegnato (random, perché non vi è motivo razionale al mondo per costruire uno di questi insiemi e non invece, che so, l’insieme dei portatori di capelli biondi, o di piede etiope, o di nei sul sedere) viene fatta equivalere al tutto di una persona e utilizzata per giustificarne il respingimento.

Ci sono differenze, certo, tra l’essere stati ebrei nella Germania nazista, o nell’Italia delle leggi razziali, e l’aver avuto i capelli rossi nel Veneto di un tempo non lontano (altrove non so) dove si diceva che “al pì bon dei rossi l’ha copà so pare[i]. Ma il paradigma, il modello del formarsi di un’esclusione, più o meno radicata, più o meno grave, è lo stesso; è il paradigma culturale che obbliga ad individuare un “nemico”, un “cattivo”, un “pericoloso” per poter stabilire la propria identità e, su tale base, fare gruppo; e fare gruppo è un bisogno essenziale alla vita della specie umana.

Per questa via il meccanismo che porta ad allearsi “per” raggiungere un fine verrà sempre confuso con il meccanismo che porta a coalizzarsi “contro” qualcuno. Avete mai notato quanto spesso vengono usati, o almeno percepiti, come fossero sinonimi, i termini “coalizione” e “alleanza”?

Pure: la discriminazione della donna è un fenomeno uguale e diverso. Innanzitutto, accomuna l’intero mondo e appartiene ad ogni tempo. Accomuna, nella solidarietà maschile, bianchi neri ebrei e comunisti, e si caratterizza per una specifica forma di invisibilità, tale per cui sono le stesse donne, le madri – che in ogni gruppo sociale svolgono il compito di trasmettere la cultura – a non vederla o a vederla addirittura come valore.

Shirin Ebadi, scrittrice, avvocatessa iraniana Premio Nobel per la pace 2003, ha fatto sua una frase che appartiene alla storia del femminismo, al punto da rendere impossibile individuarne la fonte, affermando che il maschilismo è come l’emofilia: colpisce solo gli uomini ma viene trasmesso dalle donne.

Ed ecco il punto. Di fronte alla discriminazione di un appartenente ad una categoria “x”, si lotta, si vince una battaglia, almeno in qualche parte del mondo.  Si gioisce per una conquista di libertà, per ricadere nella stessa o in un’altra forma di esclusione – la battaglia, locale, parziale, è stata vinta, la guerra è sempre in corso.

Non se ne esce, perché ognuno di questi fenomeni di esclusione, frutto di fattori storici, di interessi diversi, alibi per originari conflitti di diversa natura, in realtà è un sintomo dell’infezione originaria: l’esclusione della donna, come fatto da cui inizia la Storia, modello per la costruzione del nemico, paradigma fondativo delle culture patriarcali che hanno ritenuto di assicurare all’uomo, attraverso la proprietà della donna e il suo stato di minorità, la legittimità della propria discendenza e la proprietà della terra.

Si combatte una costellazione di sintomi, se ne debella uno qua uno là, il rischio di recidiva rimane alto, e si compie l’errore fondamentale di considerare ogni sintomo una malattia a sé – come se si trattasse di fare un elenco di categorie a rischio di esclusione e, ad una ad una, vincere la battaglia per la loro inclusione.

Non ci si accorge che là, nella discriminazione operata dalla società patriarcale nei confronti della donna, sta la fonte dell’infezione; che è necessario debellare la madre di tutte le discriminazione per debellarne, disinnescarne il concetto, da cui altrimenti continueranno a derivare tutte le settoriali discriminazioni che infettano i nostri gruppi sociali.

Solo allora, le donne, tutte le donne, potranno leggere, e agire una realtà che, comprendendole, comprenderà anche gli uomini, non più a rischio di dover escludere o essere esclusi.

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[i]Il migliore dei rossi ha ammazzato il proprio padre