
Nelle ultime chiacchierate ho ripreso il tema della favola, saltellando tra autori e opere che appaiono molto diversi (e cos’hanno, infatti, in comune Italo Calvino, Hugo Pratt, J.R.R. Tolkien, Dino Buzzati e, oggi, e non parlo solo del suo primo romanzo, ma anche della sua attività di sceneggiatore e disegnatore, Roberto Recchioni?).
Molto, per la verità. Sono tutti narratori di favole. Sono autori che, in modi diversi, hanno utilizzato, nei loro libri, la struttura della favola quale elemento organizzatore della narrazione.
I critici dispongono di categorie appositamente studiate per sistematizzare i prodotti della scrittura creativa, e tuttavia i loro strumenti non sono in grado di dar conto, a me che leggo, del tipo di piacere che trovo in questa attività e delle ragioni, profonde, delle mie scelte: non tanto del libro quanto del genere di lettura che scelgo in un momento dato.
È solo una mia personale caratterizzazione, ma io credo – ne sono davvero convinta – che noi lettori distinguiamo i libri, e in conseguenza operiamo scelte, dividendo le opere di narrativa in due grandi categorie: scegliamo una “Storia” oppure scegliamo una “Favola”, e non commettiamo errori nell’operare tale distinzione, anche senza esserne consapevoli e pur non essendo, tale distinzione, sempre immediatamente evidente.
Una Favola o una Storia? Sceglieremo sulla base del nostro bisogno, oserei dire persino per il valore terapeutico del genere di libro, nel qui ed ora che stiamo vivendo; opereremo in base a domande che ci poniamo e a risposte cercate; in risposta ad una necessità di andarcene altrove o invece rimanere dentro un nostro pensiero, prendendoci il tempo e la compagnia necessaria a sviscerarlo, senza fretta.
Non scegliamo <solo> l’argomento del libro: scegliamo un linguaggio e una struttura narrativa.
Che le cose stiano proprio così – che esistano “le Favole” ed esistano “le Storie”, come universi alternativi – si dimostra facilmente.
Fateci caso: ci sono narrazioni che, qualunque sia il loro incipit (”Nominato ufficiale, Giovanni Drogo partì…”; oppure: “Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti.”) potrebbero iniziare benissimo con un “C’era una volta”. Provare per credere: sono “Favole”.
E ci sono narrazioni che non possiedono questo tipo di anima. Sono grandi, sono bellissime, ma sono altra cosa. Ci conducono in tempi e luoghi precisi, posti dall’autore per contenerle, pur se rappresentano, a noi lettori, eventi, emozioni che fanno parte dell’universale umano, capaci di mantenere la loro significatività addirittura nei secoli. Sono, queste, ciò che propriamente chiamiamo “Storie”.
L’un genere e l’altro possono indifferentemente essere un breve racconto, un racconto lungo, un romanzo, una fiaba classica – voglio esagerare: persino una biografia.
Appartengono alle “Storie”: “I promessi sposi”, “Guerra e pace”, “Per chi suona la campana”………..; ma non, ad esempio “Il vecchio e il mare”
“Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce.” –
Questa è una fiaba. Lo sentite il “c’era una volta…”?
Certo, in senso stretto la fiaba, la favola, ha una struttura semplice, è un racconto molto breve, parla di animali, o di esseri fantastici, immaginari; e si rivolge, elettivamente, al nostro bambino interiore. E dunque, certamente, ai bambini nel tempo reale della loro infanzia. Ma queste caratteristiche non sono l’essenziale; descrivono solo “un tipo” di fiaba. Nel totale rispetto della schema di Propp[i], è una fiaba anche “Il signore degli anelli”, nella sua lunghezza e complessità di temi.
“Quando il signor Bilbo Baggins di Casa Baggins annunziò che avrebbe presto festeggiato il suo centoundicesimo compleanno con una festa sontuosissima, tutta Hobbiville si mise in agitazione”
E lo è pure “La metamorfosi” di Kafka.
“Una mattina Gregorio Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato in un insetto mostruoso”
Operiamo pure un confronto con lo schema di Propp: Ci deve essere (1) una situazione di stabilità, che viene rotta da un qualche evento (2), cui seguiranno (3) azioni dell’eroe tese a risolvere lo squilibrio che, infine (4) si risolverà con il ripristino di una nuova stabilità: “e vissero tutti felici e contenti “– ovviamente non tutti, solo qualcuno (più frequentemente, ma non necessariamente, l’eroe).
Sarebbe invece difficile sentire il “C’era una volta”, debitamente associato ad un’indefinitezza, oltre che di tempo, di luogo, magari solo per vaghezza di collocazione, in opere quali, che so “Il male oscuro” di Giuseppe Berto.
“Penso che questa storia della mia lunga lotta col padre, che un tempo ritenevo insolita per non dire unica, non sia in fondo tanto straordinaria se come sembra può venire comodamente sistemata dentro schemi e teorie psicologiche già esistenti” –
oppure – ecco il ricordo (perché? da dove è uscito?) di un libro che non rileggo da molto tempo – nel bellissimo “Libera nos a Malo” di Luigi Meneghello, grande romanzo e grande autore, forse un po’ dimenticati[ii]:
“S’incomincia con un temporale. Siamo arrivati ieri sera, e ci hanno messi a dormire come sempre nella camera grande, che è poi quella dove sono nato” –
Ci sono autori che frequentano bene ambedue i generi, che ogni tanto si lasciano andare a rinfrescare un loro bisogno e producono una favola, per poi tornare a narrare storie, senza timore del contenuto fiabesco che, comunque, potrebbe intrufolarsi al loro interno – ne è un esempio, appunto l’Hemingway di “Il vecchio e il mare” (da molto desidero rileggerlo ma non so come, non si inserisce, non capita che emerga, nella filiera del “libro chiama libro” che mi guida senza regola).
Una enorme digressione, la mia, ma ritorno al punto – ben sapendo che questa digressione non può venir accolta e giustificata, dal punto di vista della critica letteraria, ma sapendo che è <vera> (qualsiasi cosa ciò significhi, come dicono i filosofi che riescono, con questa frase magica, a far passare praticamente di tutto).
Dicevo, quando mi sono interrotta per divagare, degli autori ultimamente letti; parlavo del fatto che si tratta di narratori di favole. Aggiungo che, nel frattempo, non mi sono fatta mancare le “Le Fiabe italiane” di Italo Calvino. E, da una settimana a questa parte, mi sto sollazzando con maghi e streghe di Terry Pratchett, a un anno da quando, qui, ho proposto un suo libro. Un autore che sicuramente riproporrò.
Nelle ultime chiacchierate ci ho infilato, parlando di “Lettura” anche il tema “Donne” – perché, ammettiamolo, incuriosiscono queste tali che, “se e solo se” verrà loro permesso, costituiscono, almeno da noi, la maggioranza assoluta dei lettori (si dice!) mentre rappresentano, nel mondo, il gruppo sociale maggiormente esposto ad analfabetismo forzato.
Ora devo trovare ciò che lega il tutto. Devo. Pur avendo definito il mio modo di leggere “libro chiama libro”, senza regola, sono certa che la regola c’è, magari solo del tipo “Il Bersaglio” – se qualcuno ha presente il classico giochino della Settimana Enigmistica[iii]
Le Favole. Le Storie. E le lettrici donne, dunque, Quelle che in molta parte del mondo sono escluse dalla lettura. La risultante sembra essere: Donne, Favole e Storie, mi pare.
Ed è forse così. Gli uomini hanno trascritto le favole che le donne raccontavano (Per limitarci alla modernità: Grimm, Perrault, Andersen; ma anche Collodi, e ovviamente Calvino), derivandole da una tradizione orale di un mondo femminile che non prevedeva una firma d’autore sul frontespizio di un testo a stampa (tanto più da parte di chi non sapeva né leggere né scrivere), e non prevedeva un concetto di proprietà per tale genere di “bene” (tanto più non potendo una donna essere titolare dei relativi diritti).
Le favole della tradizione orale – le favole della “nonna” – appartengono al genere femminile, insieme a tutto ciò che, di creativo, è stato pensato, realizzato e trasmesso oralmente dalle donne, nei secoli, per assolvere a un bisogno, per desiderio di conservazione, si trattasse di cose prodotte o di conoscenze necessarie a riprodurle, variarle, migliorarle. Poteva trattarsi di un manufatto, una ricetta, una conoscenza in campo medico, una procedura per fare qualcosa; oppure di una favola, una filastrocca, un proverbio, una poesia, una cantilena della buonanotte.
(Segue: forse.)
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[i] Vladimir J. Propp, “Morfologia della fiaba”, Einaudi 2000
[ii] Luigi Meneghello, “Libera nos a Malo”, Rizzoli BUR 2006: per chi non conoscesse questo libro, si tratta di una storia che ha, quale personaggio principale formale, il narratore, essendo una specie di lungo racconto autobiografico, ma in realtà è protagonista il paese di Malo, nel vicentino, negli anni dal 1930 al 1960, avendo la storia, quale filo conduttore (si fa per dire, perché ben difficilmente è reperibile una “trama” in questo romanzo-saggio-autobiografia- scherzo umoristico e anche no, che narra, ripensandoli, un tempo e un luogo) la riflessione su di sé e i ricordi del paese natale. E Meneghello gioca, nel titolo, con il finale del Padre Nostro. Un libro che si legge, forse, con una certa difficoltà, per i preziosi inserimenti dialettali, ma che è un capolavoro, molto godibile.
[iii] Da un parola fonte si deve arrivare a una parola bersaglio, che nulla ha in comune con la prima, passando attraverso una serie di altre parole ottenute applicando regole – anagrammare, far seguire una parola simile con altro significato, mutandone solo una lettera, o aggiungendola, cui seguirà una parola che ne richiamerà un’altra, suo sinonimo, o perché legate in un detto, in un titolo, e via così – per giungere, appunto, ad una “parola bersaglio” priva di apparenti legami con la parola di partenza, avendo stabilito le regole per ottenerla.