Il sapore doloroso delle emozioni

linconfondibile-tristezza-della-torta-al-limoneCi sono i molti modi dell’autobiografia, nella scrittura di Aimée Bender; e ci sono i molti modi dell’osservazione che la protagonista di questo romanzo agisce: degli altri, dei familiari, (in questo caso); estranei, vicini di casa, colleghi, incontri casuali o quasi (nel suo precedentemente romanzo, “Un segno invisibile e mio”, la cui recensione si trova qui).

C’è – tratto inconfondibile nella narrativa di questa autrice – un disvelamento dei personaggi reso, confessato, dai gesti, dalla traduzione in sensorialità dei bisogni, delle emozioni, dal sapore dei rapporti, che produce, nel lettore, il disagio del ritrovarsi nudi di fronte allo sguardo altrui, potenzialmente palesati nel nostro intimo e nella nostra quotidianità; nell’andare per la strada, nel presentarci, richiedere, offrire, salutare, stringere una mano; nel preparare del cibo per altri; nel mangiare cibo che altri hanno prodotto per noi e ci offrono.

Si legge, e ci si trova nella scomoda eppure fascinatrice posizione di chi sorprende, non visto, l’intimità emozionale altrui più protetta. Peggio: di chi, sorprendendo involontariamente l’intimità emotiva altrui, non ha il buon gusto di ritrarsi e si ritrova a conoscere, di nascosto, con vergogna di sé, senza potersi sottrarre all’esperienza. La lettura continua, trattiene.

C’è, in tutto questo, espresso in parole, l’ostensione di un linguaggio dei sensi che quelle parole precede e trascende: c’è il guardare, l’osservare una gestualità, un comportamento; c’è il toccare, stringendo una mano; c’è il gustare, del palato, che porta con sé il mondo emozionale di chi ha maneggiato il nostro cibo, i singoli ingredienti che lo compongono, la loro mescolanza; di chi lo ha preparato, offerto.

C’è un sapere, un acquisire informazioni non ricercate, senza la possibilità di sottrarvisi, che espone la vita (della protagonista, ma anche di chi legge) all’invasione da parte dell’altro; e che, dell’altro, porta al doversi far carico. Senza poter evitare il dolore che questo comporta; ma anche, ed è la soluzione catartica al dilemma di un vivere e convivere che non escluda un essere per sé, imparando la sostanza di una buona vita possibile, la sola che permetta uno stare nel mondo e appartenervi, accogliendo i nostri legami e operando, nel contempo, un patto in proposito rispettoso di noi stessi.

Vien voglia di conoscerla, questa donna che scrive e, senza parere, si intrufola nei segreti della (nostra) vita; e, nell’imminenza di un incontro, saremmo probabilmente presi dalla voglia di fuggire da lei, a nostra protezione – il che sarebbe un grande errore, perché ha molto da farci sapere: di noi, della nostra appartenenza ad un’umanità che condivide molto più di quanto un’esperienza non osservante, distratta, degli altri, ci dica.

Se il precedente romanzo di Aimée Bender – affascinante, contorto e, alla resa dei conti, di una semplicità disarmante – ci aveva, e l’ho scritto, messi inizialmente a disagio, questo ci immergerà forse, maggiormente, nel dolore – non esternato, interiore – delle persone; quello che segna le vite e che il pudore di sé non permette di mostrare; quello “ingiustificato”, esistenziale. Il dolore inevitabile, connesso all’essere chi si è.

I personaggi. La protagonista, Rose Edelstein – voce narrante – ha nove anni quando la sua storia si apre. Secondogenita di una famiglia della piccola borghesia dei dintorni di Hollywood, cinque anni meno del fratello Joseph, detto Joe. È il giorno del compleanno di Rose e la madre si appresta a preparare per lei una torta al limone, la sua preferita. E invita la figlia a collaborare alla preparazione.

Sul tavolo di lavoro in cucina aveva preparato gli ingredienti: il sacchetto della farina, la scatola dello zucchero, due uova marroni sistemate sulle scanalature tra le piastrelle. Un panetto giallo di burro che si sfaceva agli spigoli. Una coppetta di vetro con le scorze di limone.”

Rose sperimenterà, assaggiando la torta della madre, l’emergere in lei di una anomala capacità: Rose sente, e da quel momento sarà per sempre, le emozioni, i sentimenti, delle persone che hanno lavorato a produrre un cibo; sentirà, via via, esplorando una capacità di cui avrebbe volentieri fatto a meno, la qualità del momento di vita di chi è entrato in rapporto con ogni singolo alimento di cui ogni cibo è composto, e la qualità di vita degli alimenti stessi. E scoprirà così la profonda infelicità della madre, la sua rabbia, la delusione per la propria vita.

Rose mangia un boccone di torta e si sente soffocare. Non può ingoiare.

“Io sentivo la montagna che mi si gonfiava in gola, un indolenzimento che mi si diffondeva tutt’attorno al collo, dentro.”

“(…) Hai litigato con papà?”

La storia ci mostrerà le vite dei componenti la famiglia, che verranno svelate, da Rose, tramite il suo rapporto con il cibo e la sua capacità, di bambina che si trasformerà in un’adolescente e in una giovane donna segnata dal carico su di lei delle vite di chi ama; e dalla capacità di osservare, in profondità, e “ascoltare” i comportamenti altrui.

Entreranno per questa via, nella storia, i genitori, il fratello, da lei amatissimo; un ragazzino geniale, poi adolescente e giovane uomo problematico, isolato, che la ama e la evita. Come evita tutti, salvo l’amico George.

Conosceremo George, l’amico a sua volta geniale di Joe, che sarà capace di dare una vera amicizia anche a Rose, regalandole un ascolto partecipe dei suoi problemi con il cibo; capace di crederle e di esplorare con lei questa capacità che sta sconvolgendo la sua vita di bambina.

Quindi ogni cibo ha un sentimento, riassunse George quando provai a spiegargli del rancore acido nella gelatina di uva.

Mi sa di sì, dissi. Un sacco di sentimento, precisai”

E George condurrà, con lei e per lei, un esperimento-verifica, sostenendola verso il fratello e fornendo di senso questa sua capacità.

“Beh! La ragazzina fa su serio, disse George, andandogli vicino. Mi sollevò la mano in alto, come se avessi vinto qualcosa. La tua sorellina. È una specie di medium magica del cibo. O qualcosa del genere, concluse.”

 “Sono una medium del cibo, mi ripetevo, anche se quel pensiero mi faceva venir la voglia di scavare come un insetto sotto i palazzi e di non venire più fuori”

C’è una nonna materna, mai veduta dai nipoti, che invia loro improbabili pacchi. Arrivavano a casa Edelstein  vecchie e inutili cose usate, utensili per la casa, una vecchia sedia; per Rose, un vecchio logoro strofinaccio decorato con rose, cui era evidentemente legato un sentimento, un vissuto, una comunicazione che i nipoti, persino lo scontroso Joe, accolgono.

L’assenza della nonna, “che pian piano spediva via posta tutta quanto la sua vita dallo stato di Washington” realizza una forte presenza, mediata dai pacchi e dall’invio della propria quotidianità consunta, che creerà un legame con la nipote mai veduta.

Rose interrogherà la madre su quest’assenza:

“A nonna non piace viaggiare, rispose”

E allora perché non andiamo noi a trovarla? domandai (…)”

“A nonna non piace avere ospiti, mi spiegò.”

Nel tempo, nell’apprendere, dolorosamente, pagando i costi dell’intrusione non voluta, ma accolta, nella vita dei familiari – immersi in un intrico di problemi, di fatica di vivere, impegnati in strategie di aimee-bender-2sopravvivenza e di realizzazione – Rose dovrà accompagnare la famiglia nella costruzione di un equilibrio che, necessariamente, come sempre avviene, sarà tale solo perché accolto. E l’accompagneremo ad un avvio di vita adulta, alle soglie del prendere una propria autonoma strada.

Aimée Bender, con questo romanzo, ci offre un approccio alla narrazione che porta a riconoscere, nella sua scrittura, la specificità di una voce femminile, nei modi del rapporto con sé e con l’altro da sé, nel modo di rappresentarsi il proprio mondo e un percorso possibile per viverlo con consapevolezza.

Assolutamente da leggere. Insieme al precedente “Un segno invisibile e mio”. Al di là dell’apprezzamento per la storia, sicuramente un’esperienza di lettura particolarmente originale.