Tullio De Mauro non scriverà più per noi.
Con Umberto Eco erano amici. Non è trascorso neppure un anno; e, come è avvenuto per Eco, la notizia coglie impreparati e lascia una grande amarezza, non vorrei dire dolore, come fosse venuta a mancare una persona cara, no, conosco troppo bene il lutto personale, privato, per dire una cosa simile. Ma davvero di dolore si tratta. Di fatica ad accettare. Di rifiuto.
È un dispiacere – posso dirlo? – egoista, proprio di chi guarda a sé e al proprio perdere una risorsa, una fonte di pensiero quanto mai importante, la speranza che viene dalla parola utile, la speranza che viene dal buon insegnamento. Anche da quell’articoletto settimanale, su “Internazionale”, che dice della nostra e altrui scuola, che impedisce di dimenticarne la fondamentale importanza; l’articoletto da leggere subito dopo aver letto il fondo di suo figlio, Giovanni De Mauro, fondatore e direttore della rivista.
Una famiglia particolare, i De Mauro. Capace di occupare un posto significativo per la coscienza degli italiani e di non farsi notare, nella riservatezza propria di chi conosce, e usa, e trasmette con rispetto, senza occupare il proscenio, le parole; di chi frequenta un parlare pubblico e una scrittura che guardano agli altri, al loro bisogno fondamentale di usare e ascoltare con competenza le parole: per essere liberi, ed essere cittadini, utili a sé e alla propria comunità.
Una famiglia particolare, dicevo.
Un fratello, Mauro De Mauro, profondamente e appassionatamente fascista in gioventù, e fino alla fine della guerra, come poteva esserlo qualcuno nato nel 1921 (ci si pensa poco, ma sarebbe invece il caso di pensarci quando appiccichiamo il termine “fascista” all’uno o all’altro senza distinguere il tempo della vita di una persona), cui forse, solo forse, qualcuno ha rotto il naso e procurato una zoppia in maniera irrimediabile con un pestaggio “politico” (la versione ufficiale parla di un incidente in moto). Mauro De Mauro, giornalista del quotidiano “L’Ora”[i] di Palermo, è un martire della lotta alla mafia e della lotta per il diritto di dire parole di verità su uno dei grandi misteri italiani. E non importa su quale, il caso Mattei, il tentato golpe Borghese, o cosa. Mauro De Mauro, il fascista amico e sostenitore di Junio Valerio Borghese, fu assolto con formula piena dall’accusa di collaborazionismo, ed è morto – era il 1970 – da martire della democrazia, da grande giornalista combattente per la verità.
Un figlio, Giovanni De Mauro, un giornalista importante, che non occupa con interviste i nostri telegiornali e i salotti (purtroppo? Solo forse) ma che, settimana dopo settimana, con la rivista “Internazionale” rende disponibile al pubblico italiano una importante selezione della stampa estera; rende possibile guardare, e vedere, parti del mondo che determinano le nostre vite “a nostra insaputa”; contenuti su cui, poi, potremo sviluppare un nostro pensiero, molti pensieri, diversi, ma informati.
E lui, Tullio De Mauro, che ha silenziosamente formato generazioni di studenti e generazioni di adulti, senza quasi bisogno di farlo sapere.
Perché qui stava il suo pensiero importante, al di là dei grandi meriti accademici: stava sul tema dell’educazione degli adulti; sul tema, e il problema, della perdita, della caduta, di competenza linguistica che, dopo la scuola, sta colpendo drammaticamente gli italiani; sul problema di un dilagante analfabetismo funzionale che il grande linguista combatteva con la sua attenzione alla lingua reale, ai nuovi linguaggi, alla funzione dei dialetti.
In effetti, il grande compito del giornalista sta proprio in questo e – la cosa mi colpisce – è impossibile non cogliere la continuità esistente tra il lavoro di Mauro De Mauro, cronista di un tempo difficile dell’Italia, il lavoro di insegnante, di studioso e di comunicatore di Tullio De Mauro, e il lavoro nel giornalismo, oltre che di giornalista, di Giovanni De Mauro, che mette a disposizione la stampa estera, svolgendo un compito importantissimo di mediatore e facilitatore nel complesso universo della comunicazione in un mondo interconnesso; mentre si assiste ad una caduta di competenza nell’uso della lingua che colpisce pesantemente, dopo la scuola, gli adulti italiani; mentre c’è da affrontare il tema dell’incapacità diffusa a saper leggere e comprendere un testo scritto di media complessità. Ed è un compito quasi insostenibile, oggi, in un’epoca di passaggio che per un verso mette a disposizione di ognuno possibilità infinite di comunicazione mentre per l’altro porta a perdere – la foresta nasconde l’albero – la qualità, la performanza dei linguaggi e la competenza nel loro uso.
Un aneddoto, raccontato nelle prime pagine di un bel libro, anche divertente, scritto da Tullio De Mauro in dialogo con Andrea Camilleri, “La lingua batte dove il dente duole” è illuminante al proposito.
De Mauro racconta “una di quelle storie giudiziarie che si tramandano i bravi magistrati napoletani”, a proposito della necessità, frequente in Italia, di far ricorso al dialetto per essere capiti correttamente.
Si tratta di un caso di stupro. Il giudice interroga la vittima, eccezionalmente maschio. E, ecco il punto: si scusa d’anticipo per la necessità di usare un linguaggio scurrile.
“(…) prego lettrici e lettori che non amano l’abuso ormai corrente di male parole (per fortuna siamo in parecchi a resistere) di perdonarmi per l’occasione.”
La storiella sta così. Il giudice interroga la vittima e deve sapere esattamente cosa è successo. Cerca le parole per formulare la domanda in modo corretto e rispettoso.
“Dite, Nicolino, con il qui presente Gaetano fuvvi <congresso>?” Nicolino lo guarda interdetto. Il magistrato, paziente, cerca di essere a suo modo più chiaro: “Nicolino, fuvvi <concubito>?” Nicolino continua a non capire e il magistrato si spinge al massimo della precisione consentita dall’eloquio giudiziario: “Nicolino ditemi, fuvvi <copula>?”. Nicolino lo guarda smarrito. E allora il magistrato abbandona l’italiano giudiziario e gli dice finalmente: “Niculì, isso, Gaetano, ti l’ha misse n’culo?” E Nicolino finalmente annuisce e risponde: “Sì, sì”.
Un pensiero, dopo la risata. De Mauro si scusa d’anticipo per le “male parole” che dovrà usare nel riferire la storiella e che, per l’uso corrente del linguaggio odierno, non richiedevano scusa alcuna. Perché, dunque, il prof. De Mauro lo fa? Perché è grandemente bacchettone? Non credo. La risposta credo stia nel fatto che lui, De Mauro, ha tante e tante parole a disposizione e dunque il parlare scurrile non gli è necessario, di norma, per chiarire ciò che vuole dire. Perché mai dovremmo offrire ad un ospite un vino scadente se disponiamo di una fornita cantina con vini di alta qualità? Ma se possediamo solo vino pessimo, e neppure sappiamo valutarne la non qualità, solo quello offriremo.
Ecco il perché dell’uso dilagante di termini scurrili. Sono termini che, per loro natura, si possiedono in modo indelebile, per la loro pregnanza emotiva, e che dunque si renderanno disponibili alla memoria con immediatezza. Li useremo, pertanto, poiché non disponiamo di una adeguata scelta di parole, di una adeguata padronanza della nostra lingua, che ci consenta, senza bisogno di starci a pensare, di usarne altri.
Chi li usa, dunque (tutti noi, nella misura in cui sempre più li usiamo) è povero di parole; se mai le ha possedute le ha perdute; e non saprà dire il proprio pensiero, le proprie ragioni, i propri sentimenti, i propri bisogni; non saprà argomentarli; non saprà difenderli. Alla fine, inconsapevole di sé, poiché le parole sono i mattoni con cui costruiamo la realtà, neppure li conoscerà, rimanendo in balìa di chiunque sappia intortarlo con discorsi ad alto contenuto emotivo e nullo contenuto logico.
Che se ne farà allora, tale persona, che se ne farà ognuno di noi, di una democrazia posseduta sulla carta, privata delle conoscenze necessarie a poterla agire? Saremo solo ulteriormente turlupinati in quanto resi responsabile di un voto, di scelte, che non eravamo in grado di affrontare.
Una perdita grave, per tutti noi, l’aver perduto l’insegnamento di Tullio De Mauro, che ci raggiungeva anche se non ce ne accorgevamo. E ora: Buon lavoro, Giovanni De Mauro. Continui lei. Ci conto, mentre spero che gli scritti di suo padre tornino maggiormente presenti in libreria. Tornino ad essere letti, oggi che non disporremo più della sua anche breve ma settimanale parola. Almeno questo.
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[i] Nato nel 1900 come giornale liberale, su iniziativa della famiglia Florio, negli ultimi anni di proprietà del PCI, ha cessato le pubblicazioni il 9 maggio del 1992. Dopo vari tentativi, è tornato in edicola il 19 febbraio 2015.