Roberta De Monticelli, “Al di qua del bene e del male”, Einaudi 2015
“Ma se dei pezzenti avidi di trar profitto personale si avventano sul bene pubblico, con tutte le intenzioni di doverne strappare il proprio tornaconto, non ti sarà possibile avere una Città ben governata, in quanto, essendo il potere oggetto di discordia, una guerra fratricida e intestina prima o poi manderà in rovina i contendenti e con loro tutto il resto della Stato”
Platone, Repubblica, Libro VII
Il libro ha un sottotitolo. Una domanda e una risposta, che ne sintetizzano il contenuto:
“Qual è l’origine del male pubblico? L’appiattimento del valore sul fatto, della norma sulla normalità, del diritto sulla forza.
La linea di cedimento è la nostra coscienza.”
L’esergo è, invece, aggiunta mia; un passaggio del Mito della caverna, dalla “Repubblica” di Platone, che mi ha sempre affascinato e che, con il pensiero ai temi di questo libro, mi si è imposto. È stato scritto circa duemila quattrocento anni fa; possiamo temere che il concetto non fosse nuovo neppure a quel tempo – già vecchio allora, già detto, già saputo. Tant’è che Platone ne ha scritto.
Se le cose stessero così, questo libro di Roberta De Monticelli non avrebbe, temo, ragion d’essere letto, accolto, condiviso. Il fatto dimostrerebbe, oltre ogni ragionevole dubbio, la ragione di un certo Trasimaco, antagonista di Socrate in una disputa sul tema della giustizia, (come la si possa definire, in che cosa consista), di cui ho raccontato qui.
Proponendo questo libro, devo fare anche un’ulteriore precisazione: si tratta di un libro che si legge con piacere; Roberta De Monticelli conosce l’arte dello scrivere e del tener agganciato il lettore. Si tratta anche di un libro che, a mio parere, è importante leggere; e che tuttavia incappa, un po’, nel problema che affligge molti filosofi-scrittori contemporanei: l’autrice si rivolge, de facto (vedete? Mi scappa il latinorum inutile, per contagio!), solo agli eletti suoi confratelli in scienza, assumendo di poter citare opere e pensiero di altri filosofi, vivi e morti, contemporanei e non, quasi sempre senza dare ragione del loro pensiero. Supponendolo noto, immagino. Accade spesso che questo vezzo renda illeggibili molti apprezzabili libri di filosofia, che chiederebbero di esser letti da un pubblico vasto; e anche in questo modo la filosofia muore, e con essa la prassi di un certo esercizio di pensiero.
Tuttavia, questo resta un libro che si legge benissimo, potendo, se del caso, sorvolare su qualche riferimento dotto, senza che venga perduto né il piacere di leggere né l’efficacia del pensiero esposto.
Un libro importante, dunque – per tutti noi, oggi, qui, ora. Leggendolo, si è colti dalla meraviglia di incontrare un modo del pensiero la cui “normalità” (nel significato etimologico di <correlato alla norma>) risulta controintuitiva se rapportata ad una opinione corrente che, magari, sta inquinando anche noi, e la nostra stessa vita in forza di una inconsapevole adesione: “A nostra insaputa?”.
A fine lettura ci troveremo, forse, a cercare altri libri, vecchie conoscenze, nuove scoperte, carichi di un coacervo di pensieri, disordinati, infarciti di ricordi, riflessioni, perplessità; anche con – vale almeno per me – alcuni piccoli parziali disaccordi. Per quanto mi riguarda, c’è anche la scoperta, tra gli altri, di un libro che non conosco e che ora desidero, e dunque dovrò recuperare – “Il riccio e la volpe”, di Isaiah Berlin, Adelphi 1992.
L’argomento che De Monticelli tratta in questo suo libro è sintetizzato dal sottotitolo, domanda e risposta (cui si aggiungerà, a chiusura, l’indicazione di un possibile percorso di uscita dal baratro, perché di ciò si tratta).
L’obiettivo: respingere lo scetticismo assiologico[i] – la posizione di chi afferma la relatività di ogni valore in relazione al tempo, al luogo, alla cultura, alla convenienza, al contesto in senso ampio; di chi esclude che, in campo etico, si possa dare una valutazione oggettiva al valore, una giustificazione in termini di vero/falso – per giungere a ribadire la relazione fondante che lega giustizia ed etica, sul piano logico; una relazione che, a partire da Socrate, sta a fondamento della filosofia, nata, è bene ricordarlo, quale scienza della prassi.
Rimanendo il fatto che Socrate è stato mandato a morte per il suo pensiero dalla democratica città di Atene e che, dunque, il suo metodo maieutico[ii] non ha prodotto, pare, utili risultati, questo è un libro capace di smuovere il nostro pensiero, ponendo a tema, in apertura, quella che l’autrice chiama “la solubilità della coscienza morale individuale, sotto la forza della pressione sociale o dell’autorità costituita”, e che viene presentata come una possibilità del comportamento umano, non necessariamente legata a fatti storici precisi.
De Monticelli recupera, su questo tema, il concetto arendiano di <banalità del male>[iii], sottoponendolo a critica.
Hannah Arendt, con il concetto di <banalità>, secondo De Monticelli, rischia di portare il male operato al di fuori dell’autonomia che sta <necessariamente> in capo alla scelta di chi lo attua.

Arendt presenterebbe dunque un male che può divenire <impersonale>.
Il libro attraversa la filosofia del novecento, ne mostra – personalmente mantengo alcuni interrogativi, in alcune sue parti la disanima non mi convince – il percorso che ha portato alla “corruzione dell’idealità in ideologia”, il cui terminale sarà l’apatia civile”, la perdita dell’esperienza del “valore”, il suo mancato riconoscimento, in particolare nella sfera pubblica. Il caso italiano – i dissesti ambientali, le città deturpate – documenta tragicamente questo percorso.
De Monticelli si chiede da dove questo male provenga; e offre riflessioni; le argomenta attraverso il legame originario che vincola l’esperienza del valore all’esperienza del dolore, al concetto di speranza, ponendo a tema, per opposizione, un concetto di <disperanza>.
Si tratta di un percorso che merita di non essere riassunto, poiché richiede, per sua natura, la via maieutica del dialogo, con sé, l’impegno di dover dare ragione del proprio pensiero, di <giustificarlo>, nel rispetto del nesso che vincola etica e giustizia.
Al termine del percorso c’è il nostro mondo, multiculturale, che esplora la via del pluralismo; che, per ottenerla dovrà tuttavia riconoscere l’esistenza di valori universali fondanti la dignità umana, che non possono soggiacere, ad esempio, a dogmi religiosi, ad assunti culturali, a una falsa “ragion pratica” che ne minino l’assolutezza. C’è un mondo globalizzato che, mentre si interroga su questo, e mentre i problemi della convivenza si fanno pesanti, ha tuttavia veduto, nel corso degli ultimi duecento anni, affermarsi la condivisione di principi vincolanti per la dignità dei cittadini e per la convivenza internazionale; una serie di Dichiarazioni di diritti che offre uno sbocco mai in precedenza esistito.
Nel contempo, sempre più spesso, dice l’autrice, sentiamo la domanda: “è un giudizio di fatto o è un giudizio di valore?”; sempre più spesso assumiamo il principio, in sé corretto, della necessaria avalutatività delle scienze, escludendo tuttavia la riflessione sulle conseguenze etiche che ne conseguono per la nostra vita.
Sempre più spesso assumiamo che non esista, in campo morale, un “oggettivo” giudizio di valore: vero o falso?
Il capitolo finale, “Prolegomeni a un’assiologia fenomenologia” deve essere letto, e pensato. Come tutto il libro è supportato da un’importante e vasta bibliografia; come tutto il libro, potrebbe sembrare che, su questo, cada, come libro per lettori non specialisti.
Non è così. Si legge. Si pensa. Al termine, si può chiudere il libro e rimanere in compagnia del proprio pensiero. Si possono raccogliere ampie e interessanti indicazioni di lettura. Se ne esce, in ogni caso, arricchiti – e non stanchi.
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[i] Assiologia: In filosofia, ‘dottrina dei valori’, cioè ogni teoria che consideri quanto nel mondo è o ha valore e per tale aspetto si distingue da quanto è invece mera realtà di fatto. (Da: Enciclopedia Treccani)
[ii] Maieutica: Termine con cui viene generalm. designato il metodo dialogico tipico di Socrate, il quale, secondo Platone (dialogo Teeteto), si sarebbe comportato come una levatrice, aiutando gli altri a «partorire» la verità: tale metodo consisteva nell’esercizio del dialogo, ossia in domande e risposte tali da spingere l’interlocutore a ricercare dentro di sé la verità, determinandola in maniera il più possibile autonoma. (Da: Enciclopedia Treccani)
[iii] Hannah Arendt, “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” 1963. La Arendt, nel 1961, aveva ottenuto di essere inviata dal New Yorker per seguire, a Gerusalemme, il processo al criminale nazista Adolf Eichmann. Nel libro, che fece seguito al reportage, la Arendt pose a tema il concetto di <banalità del male>, intendendo con ciò l’essersi trovata di fronte non ad un <male radicale> bensì a qualcosa che, <banalmente>, aveva a che fare con la spersonalizzazione, con l’assenza di pensiero della persona incapace di una coscienza di sé e, in conseguenza, di assumere la responsabilità delle proprie azioni. La spiegazione, necessaria, dell’incredibile giustificazione “ho solo fatto il mio dovere, eseguito ordini”, privo di adesione ad un valore del proprio agire. La Arendt, per questa sua posizione, fu aspramente criticata dalla comunità ebraica cui apparteneva.