Repubblica, Libro I (Da: Platone, Tutti gli scritti, A cura di Giovanni Reale, Rusconi editore 1992
Queste righe non sono nate come proposta di lettura. Pure, possono esserlo, certo. Dopotutto, le opere di Platone vengono pubblicate senza interruzioni da…In realtà non lo so, diciamo da sempre, da che esiste la stampa?
Pure, difficile che qualcuno cui si chieda cosa sta leggendo, risponda “I dialoghi socratici”; o “Repubblica” di Platone. Salvo obbligo scolastico, e correlati. Mentre è reale che costituiscono una lettura interessante, e piacevole, quando non addirittura divertente (I dialoghi, dico; la Repubblica no, è solo interessante).
E dunque, perché ne scrivo? Presto detto. Ho appena proposto un libro che mi ha tenuta avvinta negli ultimi giorni, praticamente senza interruzioni. Molto interessante. E neppure proprio nuovo, per gli standard attuali. Di Roberta De Monticelli, “Al di qua del bene e del male”, Einaudi 2015
Ora, De Monticelli è una filosofa di vaglia, come si dice; per di più scrive bene, si fa comprendere (cosa non scontata per la categoria): ma non riesce ad evitare il riferimento ad una bibliografia vastissima, non curandosi, per così dire, del fatto che il povero lettore non la conosca. Cosa, in effetti, tutt’altro che obbligata. Una domanda mi rode, a questo proposito: ma questi, filosofi e compagnia, intendo, i loro libri, li vogliono vendere o no? Desiderano, come ogni autore, che il loro pensiero cammini? O basta loro che le loro opere vengano lette e portate all’esame dagli studenti che non si possono rifiutare di farlo?
Il libro di De Monticelli è di piacevole e scorrevole lettura, che non viene affaticata dai riferimenti ad autori dal pensiero magari non noto, o ben dimenticato. Ma ha, a fondamento, un bellissimo dialogo che si trova nel Libro Primo di “Repubblica” di Platone. E anche in questo caso, forse è non indispensabile ma certo, conoscerlo, anche solo attraverso un riassuntino, può rendere più piacevole la lettura.
Mi scuseranno, dunque, coloro che lo conoscono, ma mi sono fatta trascinare dalla voglia di raccontarlo, in primo luogo perché è pure divertente, in secondo luogo nella speranza che, hai visto mai, qualcuno ci caschi e vada: 1) a leggersi i Dialoghi e Repubblica; 2) a leggere il libro di De Monticelli; la cui recensione è immediatamente contigua, per data e collocazione. (qui)
Poi, in realtà, ho riletto, e brevemente riassunto, questo dialogo perché mi faceva piacere farlo. Se vorrete, a questo punto, non leggere oltre, (ammesso che lo abbiate fatto fin qua) mi dispiacerà. Io, tuttavia, non lo saprò.
Ecco di cosa si tratta:
Socrate. Abbiamo tutti presente: è quel tale antico ateniese, filosofo (470 circa a. C .- 399 a. C.), sposato a certa Santippe, di professione ostetrica, cui i concittadini (conoscenti, vicini di casa, con figli aiutati a venire al mondo da sua moglie) hanno gentilmente chiesto di provvedere ad ammazzarsi da sé, travolti da un insopprimibile bisogno di non sentirlo più tener banco (essendo chiaro a tutti quelli che conoscono tale storia come l’accusa per cui è stato condannato, di corrompere la gioventù con i suoi discorsi, costituisse unicamente un appiglio per toglierselo di torno: doveva essere uno sfinimento!).
Il dialogo in oggetto:

Socrate è stato alla festa della dea Bendis al Pireo e sta tornando in città. C’è un po’ di strada da fare e Polemarco lo invita a fermarsi, con altri amici, a casa sua. Dopo cena, dice, ci sarà una bella corsa di cavalli; peccato perderla. La compagnia si ferma. C’è parecchia gente.
Si chiacchiera, naturalmente; in casa di Polemarco c’è Cefalo, suo padre, molto vecchio, che Socrate non vedeva da tempo. Scambio di convenevoli, che bello vederti, ti trovo bene. Inevitabile parlare della vecchiaia. Chiedersi se sia un male; trovare in essa del buono, per la pace dei sensi che procura (vabbè).
Cefalo racconta di una chiacchierata con il suo amico, il poeta Sofocle, vecchio anche lui:
“Come te la cavi, Sofocle, con i piaceri del sesso? Sei ancora capace di giacere con una donna?
“Uomo, non me lo dire! Finalmente mi son tolto la più grande delle soddisfazioni: quella di sbarazzarmi di questi piaceri, come ci si libera da un padrone assillante e prepotente.”
Il discorso finisce sul fatto che, si ha un bel dire, ma ciò che rende sufficientemente buona la vecchiaia, alla fin fine, sono i soldi.
Condizione necessaria, i soldi, certo, ma non sufficiente. Occorre anche essere brave persone, sapersi accontentare. E si chiacchiera oltre, per giungere al fatto – è Cefalo che parla – che, con l’avvicinarsi della morte, la coscienza tranquilla aiuta ad affrontare il passaggio. La ricchezza, dunque, aiuta se la si è usata per fare del bene, se non si hanno debiti….(Crediamoci! Dalle mie parti si dice: “Co ‘l corpo se frusta l’anima se giusta”[i] – in effetti, il dialogo ricalca bene le chiacchierate che ancora si sentono, tra vecchiotti, solitamente maschi, magari al bar, e il tipo di deriva che giunge quando il vino porta a filosofeggiare.
“…il possesso di ricchezza giova soprattutto ad impedire che si defraudi o si imbrogli qualcuno anche senza volerlo o che si resti debitori di sacrifici agli dei o di denaro agli uomini e che per tutto ciò si finisca laggiù nel terrore.”
Cefalo lascia, a questo punto, la compagnia – è vecchio, va a riposare (ad attendere ai suoi sacrifici, dice lui), e il discorso prosegue, tra gli altri, sul tema di cosa sia “giusto”. Non facile, in effetti, da stabilire.
I pareri si accavallano. Si discute sul concreto. Giustizia è “restituire il dovuto” (lo afferma sicuramente la vittima di un cattivo debitore); è “beneficare gli amici e nuocere ai nemici” (del genere se mi capita tra le mani quel tale…). Si operano dei distinguo: il giusto è “beneficare l‘amico buono e nuocere al nemico malvagio” (cerchiamo di mostrarci civili).
Socrate (al solito) pone domande; e propone infine di concludere affermando che “il giusto non può nuocere a nessuno”, né amico né nemico.
Tale Trasimaco ha assistito tacendo, e ribollendo. Non può concordare con Socrate. Lui è un filosofo sofista, altro partito. E, comunque, non può lasciare il palco all’altro, che primeggia mentre lui non viene lasciato parlare. Infine sbotta, affermando che la discussione è impostata male; che Socrate, al solito, si diverte a confutare, a criticare, invece che a dare risposte. Troppo facile! (Qualcosa mi risuona, sta a vedere che, a oltre duemila anni di distanza…)
Trasimaco asserisce che “La giustizia è il vantaggio del più forte” ed è inutile starci a far sopra belle parole che non reggono il confronto con la realtà.
Il dibattito si anima. Socrate individua elementi contraddittori nella tesi di Trasimaco, che corregge la propria tesi in: “Il giusto è l‘utile del più forte, quando agisce nel suo vero interesse”.
Argomento su argomento, finisce che la tesi di Socrate viene espressa, in quanto logicamente dimostrata, così: “il vero governante è chi cerca l’utile del più debole”, mentre Trasimaco cerca di opporre agli argomenti logici la pratica (postulandola, dunque, come legittimata ad essere in contraddizione con la logica): “Sono i fatti a dimostrare che l’ingiusto ha più successo del giusto”.
Proseguendo, per sostenere, e giustificare, perché qui sta il punto, la sua tesi, Trasimaco è costretto a radicalizzarla ulteriormente: “L’assoluta ingiustizia del tiranno corrisponde alla perfetta felicità”.
Gli argomenti addotti a favore di questa tesi si scontrano con gli argomenti portati da Socrate a favore della propria: “il vero politico cerca il vantaggio degli altri e non il proprio”. E vai, a ragionarci sopra.
Si arriva (in modo giustificato) alla tesi per cui “Il guadagno non rientra nei fini specifici di nessuna arte e tanto meno della politica”.
La dimostrazione prosegue fino al punto in cui, dimostrato che “il radicale utilitarismo di Trasimaco riduce la giustizia ad una forma di stupidità e il vizio a saggezza”; appurato che “persino i criminali devono ispirarsi a criteri di giustizia”, si conclude che “solo un’anima giusta è nel pieno delle sue facoltà e può assicurare una vita beata.”
Trasimaco riconoscerà la vittoria di Socrate – esausto, immagino. Quanto al buon Socrate, c’è voluto un po’ ma hanno finito per ammazzarlo.
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[i] Quando il corpo si debilita si rafforza l’anima; in senso ironico, ci si pente dei peccati quando non si è più in grado di commetterli.