“Parliamone” ancora, solo per poco, di una lingua italiana divenuta, nel corso di centocinquant’anni, patrimonio comune di un popolo, contribuendo a farlo divenire (più o meno) una “nazione”; integrandosi, in effetti, senza sostituirle, a una confusione, ma anche ad un amalgama, di lingue e dialetti diversi; che, a loro volta, hanno fornito e acquisito vocaboli, costruzioni, contribuendo al modificarsi della lingua nazionale, materia vivente che assume la forma del mondo che è chiamata ad esprimere.
Centocinquant’anni ci paiono molti per far sì che un popolo diventi nazione e si riconosca in – e attraverso una – lingua condivisa? Nel nostro Paese esistono, vengono rilevate, certo, sacche, anche gravi, di fragilità linguistica; di una lingua che, tuttavia, costituisce oggi un patrimonio condiviso e l’allarme, giustificato, riguarda il fatto che – oggi – viene assunta la assoluta necessità che questo strumento fondamentale dell’identità, della cittadinanza e della vita di relazione sia posseduto, con totale competenza, da tutti. Nessuno escluso.
Solo settant’anni fa una Repubblica italiana ai suoi esordi ha fatto i conti con l’analfabetismo diffuso nella sua popolazione. Se oggi possiamo dire del popolo italiano che (più o meno) costituisce una nazione – e dunque primariamente condivide una lingua – questa è opera della Repubblica. Ed è certamente una battaglia vinta. È poco? Non credo, nonostante tutto.
Il gradino da superare, oggi, pare essere quello denominato “analfabetismo funzionale”: ultimamente, questa, dell’analfabeta funzionale, è divenuta una locuzione alla moda. Non che ce ne sia stato spiegato il significato; non, dico, nell’articolo, nel libro, nella conversazione in cui a qualcuno di noi è apparsa per la prima volta. In seguito, avendo accolto la locuzione (“che faccio? La brutta figura di chiedere cosa significa? Tutti sembrano saperlo benissimo! Abbozzo. Capirò bene più in là”) non ci abbiamo pensato più. Cosa fatta.
D’improvviso, tutti a parlarne. Posso dire che ne ho tratto, anche, qualche sorriso? Sì perché, va tutto bene, ma capita di sentire la locuzione sulla bocca di intellettuali di una certa età (la mia) che sicuramente non sbagliano un congiuntivo eppure diventano veri e propri – proviamo – “analfabeti funzionali” di fronte alla necessità di inviare una mail, di compilare un modulo online. Per quanto mi riguarda, la compilazione necessaria per l’acquisto di un biglietto aereo prevede, in famiglia, l’intervento condiviso di coppia; non so perché, chiaro che non c’è difficoltà alcuna, ma c’è quella specie di leggero timor panico, non so bene. Meglio compilare insieme, verificare insieme, allora è tutto a posto? Schiaccio? Sicuro? Vai!
Va bene, la lingua, il suo apprendimento, la sua evoluzione, si apprendono in effetti così, attraverso l’uso, che porta chi parla ad applicare la nuova locuzione in questo o quel contesto, regolandosi sulla reazione del ricevente per capire se ne ha, “funzionalmente”, colto il giusto uso. Che poi, siccome il ricevente fa lo stesso, il giusto uso diventerà, passando di bocca in bocca e di scritto in scritto, un altro. Fino a stabilizzarsi. Più o meno.
Poi, solo poi, nel caso ci venga richiesto, dedurremo il significato della locuzione rispondendo all’eventuale domanda; e lo faremo con sicurezza, proprio così come siamo in grado di derivare la regola grammaticale dall’uso, e mai di derivare l’uso dalla regola, come faremmo, almeno inizialmente, con una lingua straniera. Dopotutto, sono davvero molti, se vogliamo, i vocaboli che utilizziamo ma dei quali, se ci venisse chiesta una definizione, saremmo nelle peste. Pure, li usiamo a proposito, e con competenza.
Analfabeta funzionale, dice il computer (quelli della mia età si esprimono così) è “colui che non possiede gli strumenti di lettura scrittura e calcolo necessari a orientarsi nella società contemporanea”. E, per la verità, io non l’ho intesa proprio così. Rimanendo, tuttavia, a questa definizione: significa “tutti”, a cominciare dall’insegnante o dal genitore che, preoccupato per gli errori morfo-grammaticali dei suoi allievi – figli, è incapace di operare nel mondo in cui sta preparando quegli stessi allievi-figli a vivere ed esprimersi; e incapace, a diversi livelli, di comprenderne il linguaggio. Talvolta, neppure in grado di aver cognizione di questa incapacità.
Oggi, noi proiettiamo i risultati della scolarizzazione su un universo di riferimento composto dall’intera popolazione giovanile, impegnata o meno, terminato l’obbligo, nel percorso scolastico superiore. Nel bel tempo andato, avremmo proiettato i risultati su un universo composto dal gruppo dei superstiti in uscita dal percorso scolastico, decurtato da coloro che erano stati lasciati lungo la strada, come prescritto da una scuola programmaticamente finalizzata alla selezione, anche nel percorso dell’obbligo. Come dire, un tempo sarebbe stato ovvio che gli illetterati erano illetterati – altra cosa, comunque, da “analfabeti”; forse “analfabeti funzionali”?
(A proposito: si dice decurtare da o decurtare di? Ho avuto un dubbio, risolto “funzionalmente” a orecchio).
Il concetto, e la realtà, di ciò che chiamiamo “analfabetismo funzionale” – vale a dire (per me) una strana forma di alfabetizzazione deficitaria per cui la lingua, e gli strumenti di calcolo di base, sono di massima conosciuti ma sembrano non venir utilizzati in modo competente quale veicolo per la costruzione logica del pensiero, e per agire sulla realtà – non costituisce un nuovo problema; semplicemente si tratta di un problema che, in un passato anche recente, nessuno avrebbe ritenuto tale; men che mai, dunque, di doverlo/poterlo misurare. O farsene addirittura carico.
Un tempo – vogliamo dire al tempo della Grande Riforma Gentile (1923, primo governo del maestro Mussolini, e non dimentichiamo che, sulla carta, portava l’obbligo scolastico a quattordici anni) – non era questo l’obiettivo; non per davvero. Costituiva obiettivo, sicuramente, il diffondere la lingua italiana (l’imporla) a tutta la nazione, quale strumento di potenza nazionale (e non si ritornerebbe mai abbastanza sulla drammatica storia del tentativo di italianizzazione forzata del Sud Tirolo). Obiettivo fallito, naturalmente, e giustamente: la lingua di una persona, e di un popolo, è una funzione del materno – è “lingua madre”: in ogni lingua è in uso la stessa locuzione. Si tratta di un apprendimento che ha a che fare con l’affettività, con la corporeità, con l’adesione a pelle che conduce all’apprendimento vero, quello che si inscrive nella coscienza di sé.
Lasciando tuttavia il Regno d’Italia, e soprattutto l’intermezzo fascista, alle spalle, se è vero che ci dobbiamo porre obiettivi di miglioramento (ma chi avrebbe potuto pensare, e prepararsi, all’attuale mondo della comunicazione, all’accelerazione e alla diversificazione richiesta nelle competenze, al dover insegnare in un mondo che i bambini frequentano, ma i loro insegnanti e, soprattutto, i loro genitori, spesso no), mi sono trovata persino a pensare alla possibilità che stia finendo il tempo della scrittura, ammirandone lo splendore come si ammira la luminosità di una nova, che annuncia con una ultima parata di luce la propria morte fino agli estremi del suo universo. Con le fanfare.
No, dai, l’ho pensato solo per rassicurarmi. Per scaramanzia.
Mi sono ritrovata a rovistare tra pensieri sfusi, a cercare inutilmente di fare ordine, per poi scegliere di lasciarli andare, di palo in frasca, come si dice, ma facendo anche un qualche conto (consolatorio?) sulla possibilità che questo tipo di pensiero arrivi, alla fine, a condensarsi in una struttura.
Poi, quasi inevitabile, pensando alla scuola, mi si è parato dinnanzi il significato che la nostra società attribuisce al “pezzo di carta”; penso a un valore che, non so come dire, prescinde dalle competenze acquisite, è un qualcosa al di là e un altro da. Un valore in sé. Che documenta una competenza ma anche no, nel senso che l’uso che se ne deriva non vi ha necessariamente a che fare.
Esistono ancora i nostri vecchi diplomi-pergamena dai contorni arabescati? O sono diventati più sobri?
Non so quando si deciderà di eliminare, in Italia, l’arcaismo del valore legale del titolo di studio. Quando molta parte della formazione istituzionalizzata, oggi, appare, volendo, funzionalmente analfabeta nel proprio campo, vale a dire rispetto al compito di far acquisire a chi la frequenta una adeguata professionalità nel settore dato; mentre molta altra parte esprime eccellenza assoluta, venendo resa uguale dall’orpello del “valore legale”. Discorso lungo, che si lega ad altri discorsi, a rischio talk show.
Se promettete di continuare a leggermi io prometto che non ne parlo più.