“Latte, panni, spazzatura”

Janet Frame, “Parleranno le tempeste”, gabrielecapellieditore,  Lugano 2017

GCE/POESIA – Collana diretta da Fabiano Alborghetti.

A cura e traduzione di Francesca Benocci e Eleonora Bello

 

Un piccolo grande libro, da leggere sentendosi profondamente grati all’editore Gabrielle Capelli di Lugano e al curatore Fabiano Alborghetti. La prima antologia in lingua italiana delle poesie di una grande scrittrice.

Janet Frame (1924 – 2004), riconosciuta tra le grandi del ‘900, nel suo diario di adolescente diceva di sé “Tutti pensano che farò l’insegnante, ma io farò la poetessa”.

Prima di tutto, dunque, i testi, il suo essere poetessa.

Le curatrici e traduttrici, in una Nota di accompagnamento al testo, e al loro lavoro, diranno della difficoltà di affrontare la fase di selezione (”non potendo tradurre l’opera completa”: perché? Posso immaginare diversi motivi, e di tutti solo dispiacermi).

Di mio, in questo piccolo spazio, ho limitato la proposta, non certo alle poesie che reputo migliori (non potendo esistere <poesie migliori>, meno che mai per questa poetessa), solo a due poesie che mi hanno fermata, nel momento e nell’ora di vita di questa lettura. Con difficoltà. Domani, ne sceglierò altre; e chissà, le proporrò.

Allo stesso modo, non mi permetto commenti: la Poesia non li consente, a meno di non essere un critico, ma sarebbe tutta un’altra storia.

Ripropongo invece, dalla sua autobiografia, “Un angelo alla mia tavola” (qui), l’incipit – ed ecco, nella sua prosa, sbucare (involontaria?) la poesia, sempre presente a segnare tutta la sua opera.

Dalla prima regione di liquida oscurità, nella seconda regione di aria e di luce, ho redatto le seguenti note con il loro misto di fatti e verità e memorie di verità con lo sguardo sempre rivolto alla terza regione, dove il punto di partenza è il mito.

Due soli testi, dunque, da quest’antologia, per iniziare.

 

Dalla raccolta “The Pocket mirror” (1967)

Un proposito

 

Le persone, scaldate fino alla fragilità

E immerse in acqua fredda, si spaccano.

Non sorriderò più.

Latte, panni, spazzatura.

Persone gentili, sorrisi gentili.

Non c’è tempo per questo pasto lento del tardo pomeriggio.

Latte, panni, spazzatura.

Sì, sì, grazie, non sorriderò più.

Sono venuta qui a scrivere storie e poesie,

non a preparare il croccante.

Arriva il buio, col sole ormai calato

Su latte, panni, spazzatura,

 

Non sorriderò più.

Sono venuta qui per scrivere.

Severa, immersa, sana di mente,

rimesterò le sillabe

nella padella in dotazione;

dormirò sul materasso a molle,

girerò la chiave,

pagherò l’affitto,

stenderò protezioni di giornale,

spazzolerò la moquette da spazzolare,

ma sarò torva, niente sorrisi, mai più, mai più,

(latte, panni, spazzatura)

Mentre scrivo le mie storie laggiù laggiù

Nelle grotte di pietra del loro fondale.

 

 

Dalla raccolta The Goose Bath (2006, postuma)

Sono invisibile

 

Sono invisibile.

Sono sempre stata invisibile

come la povertà in un paese ricco,

come i ricchi nelle stanze riservate delle loro case piene di stanze,

come le pulci, i pidocchi, come un’escrescenza sottoterra,

i mondi oltre il cielo, il vento, il tempo, le idee –

l’elenco delle invisibilità è infinito,

e, dicono, non fa buona poesia.

 

Come le decisioni.

Come l’altrove.

Come gli istituti lontani dalla strada di nome Scenic Drive.

 

Basta similitudini. Sono invisibile.

In un mondo di gente dalla vista binoculare, in fondo sono in maggioranza

poiché io e te camminiamo con vista a mezzaluna nelle nostre

personali oscurità

attraverso un mondo in cui le decisioni di essere e non-essere

sono controllate dalla luce

aiutata dalle lacrime e dal sonno dell’incuria o dalla morte.

 

Sono invisibile.

Gli amanti mi trapassano la vita per toccarsi,

la pioggia che mi cade attraverso scorre come sangue sulla terra.

Sono trasmessa come sapere nella testa di nessuno.

Do libertà ai danzatori,

al dire la verità.

È così. Non c’è nessuno qui che origli ed osservi,

 

e io imparo più di quanto mi sia concesso sapere.

 

 

Janet Frame è stata a lungo poco tradotta in Italia, e oggi si deve all’editore Neri Pozza un pregevole percorso di pubblicazioni di sue opere in prosa, linguaggio in cui Frame ha espresso la massima parte della sua scrittura, per la quale è stata due volte candidata al Nobel – l’ultima volta nel 2003, un anno prima della sua morte, quando il premio fu assegnato a John Maxwell Coetzee (qui); e forse non è peregrino pensare che la mancata assegnazione abbia anche a che fare con la marginalità del suo paese – la Nuova Zelanda – nel panorama internazionale.

La sua poesia – ciò che, giovanissima, sentiva come proprio della sua scrittura – vedrà unicamente due raccolte pubblicate, la seconda delle quali, per sua volontà, data alle stampe dopo la sua morte, come peraltro un suo bellissimo libro, “Verso un’altra estate” (qui).

Questo piccolo, prezioso volume, è prefato da un’Introduzione di Pamela Gordon, curatrice delle opere di Janet Frame, che ne ripercorre il percorso di scrittura e il percorso di vita, facendo in qualche modo giustizia, in poche pagine, di una storia che, segnata da una decina d’anni di ricovero manicomiale, ha in qualche modo connotato la valutazione del suo lavoro legandolo a questa esperienza di malattia – quasi negando come la sua voce parli, nonostante ciò e al di fuori di ciò, all’esperienza di ognuno, ai sensi e all’interiorità di ognuno; come Janet Frame abbia, certamente, tramutato ogni sua esperienza di vita in materia poetica (dunque certamente gli anni della sofferenza manicomiale hanno costituito un elemento entrato di prepotenza nella sua scrittura), ma non, all’inverso, assegnando a tale esperienza la qualità di fonte della poesia.

Leggendo i suoi versi – pochi?  Un piccolo lavoro? Residuale rispetto alla sua prevalente produzione in prosa? Non so. Densi. Dove tutti i sensi – e su tutti la vista, i colori, la luce; e la matericità – raggiungono una pregnanza che porta ogni composizione a bastare a lungo al lettore; e la nostra sarà, con un piccolo libro, una grande, lunga, intensa lettura, da cui sgorgherà, come da una polla, una grande esperienza, di ciascuno, su di sé.

Questo è ciò che, sempre, produce la poesia, quando dei versi la contengono – in questi versi, con una pregnanza particolare.

Femminile. Del femminile che sta in ognuno di noi? Forse, nella relazione alle cose, alla materia, al fare della quotidianità (“latte, panni, spazzatura”), ad una poesia-cibo da maneggiare, a sillabe da rimestare nella padella in dotazione.

Femminile anche l’invisibilità? Come la povertà in un paese ricco – c’è una povertà dell’essere donna? Invisibile? Nel ricco paese del maschile? Anch’esso invisibile nelle stanze riservate delle loro case piene di stanze”. Che sta in ognuno di noi.

Matericamente vitale, nel contatto con la terra e il fermento nascosto della vita (“come le pulci, i pidocchi, come un’escrescenza sottoterra”). Un femminile universale in ciò che è umano. Orgoglioso. Saputo. Invisibile? Nascosto. “Non c’è nessuno qui che origli ed osservi.” Fino al sofferto, e nascostamente superbo, femminile, imparare più di quanto mi sia concesso sapere.”

Il lettore di Janet Frame, nella relazione con la sua prosa, aveva già colto come ogni suo scritto sia impregnato di poesia. Talvolta ho pensato che anche a questo sia dovuta la difficoltà per questa autrice a raggiungere un pubblico vasto, nonostante la sua bellissima sciolta scrittura, la sua lingua della quotidianità, delle cose, piana, diretta, che comunica senza filtri – ma che, proprio per questo, impegna il lettore – proprio come la poesia.