Belle famiglie e piccole malignità

Ivy Compton-Burnett, Un’eredità e la sua storia, Adelphi Edizioni 2001Un'eredità e la sua storia

Nell’ultima chiacchierata sulle letture in corso ho già presentato quest’autrice, di cui tuttavia voglio proporre in particolare questo romanzo. Non perché sia il suo migliore, ammesso che, specialmente sulle opere di Ivy Compton-Burnett si possano fare classifiche di questo tipo ma perché, a mio parere, è uno dei suoi romanzi più gradevoli, che si legge con il sorriso (nel retro del quale c’è, comunque, sempre, un leggero stridor di denti: non del tutto spiacevole, no.)

Mi dilungherò dunque sulla sinossi, ed eccederò un po’ in citazioni di dialoghi, dato che, al di là della storia narrata, sono senza dubbio l’elemento prevalente in questa scrittura. Se ne viene travolti, non c’è respiro, e ci si chiede come mai l’autrice non abbia scritto per il teatro. La casa, i personaggi, i dialoghi, sono visibili. Non si ‘leggono’, si ‘odono’ e si ‘vedono’.

La storia. La famiglia Challoner, piccola nobiltà inglese, una grande casa, il rampicante sul muro che oscura la stanza essendo stato piantato cinquant’anni prima e, sembra, mai potato. Due anziani fratelli, sir Edwin, scapolo, e il fratello Hamish, con la propria famiglia, la moglie lady Julia e i due figli Simon e Walter. Il maggiordomo Deakin. I vicini di casa: le due sorelle Rhoda e Fanny Graham, che vivono sole.

Le due case si raggiungono attraversando il rispettivo parco-giardino. Non si ha traccia in alcun modo del paese, della città. Le due famiglie costituiscono una piccola comunità a sé.

Hamish, padre di Simon e Walter è gravemente ammalato di cuore e sa che non vivrà molto. Lo zio, sir Edwin, è a sua volta anziano e dunque i nipoti riflettono pacatamente sulla successione. Poi le cose non vanno come ci si aspetta; c’è di che riflettere sui casi della vita.

Si passa alla generazione successiva, che sarà il risultato di avvenimenti carichi di conseguenze sul percorso di vita previsto. Perché sì, avvengono cose. Ma è difficile dire se siano, alla fin fine, importanti. Ciò che importa sono le filosofie di vita, la concezione della famiglia, e i dialoghi che rappresentano tutto ciò.

Non resta che origliare, secondo le abitudini della famiglia Challoner: a cominciare dal delizioso dialogo tra i due fratelli Walter e Simon, con cui inizia la storia:

Peccato che tu non abbia il mio charme, Simon” – disse Walter Challoner.

“Beh, due quote a famiglia mi parrebbero un lusso”.

“Allora, meno male che a rimanere senza sei stato tu. Di cose come lo charme non se ne ha mai abbastanza, secondo me. Io non sopporterei di essere uno qualunque, uno dei tanti. Stonerebbe con quel certo quid che mi riconosco”.

C’è il rampicante sulla facciata della casa, che Simon vorrebbe tagliare.

“Quando tutto questo sarà mio, lo taglierò.” (…)

“Prima, devono morire sia zio Edwin sia papà”.

“Beh, la gente muore, presto o tardi.”

“Loro no, ovviamente. Loro sono immortali. Non dirmi che non te ne sei accorto. Del resto, parrebbe proprio di sì.

Anche sir Edwin e il fratello Hamish parlano tra loro. Il tema è la morte prevista prossima di Hamish. Walter origlia, Simon chiede:

“Cosa si dicono?”

“Nobili parole sulla via e sulla morte. Vorrei non aver ascoltato. Avevo il diritto di sentir parlar male di me, e invece li ho sentiti parlare tanto bene di se stessi che non sarò mai più a mio agio con loro.”

“Di noi non hanno detto niente?”

“Solo qualche cenno di cortese accettazione di quello che siamo. E io non sapevo che loro lo sapessero. Ci vedono in modo disincantato, come noi vediamo loro. E’ uno shock”.

Nell’altra casa, Rhoda e Fanny Graham attendono la visita dei Challoner, che sono in ritardo. Fanny giudica tale ritardo riprovevole. Rhoda afferma che potevano esserci delle giustificazioni e dunque non era il caso di dare giudizi.

“Ma perché poi giudicare?” disse Rhoda “Non fa parte dei nostri doveri reciproci”

“Male. E’ comunque un dovere verso noi stessi”.

“Ma anche noi possiamo sbagliare, qualche volta.”

“Bene, in questo caso ce lo diranno.”

“E se cercassimo di minimizzare i torti altrui?”

“Non vedo perché”

“Ma valutarli può essere difficile”

“Dici? Lo trovano tutti facilissimo.”

“Non c’è bisogno di esternare i propri giudizi.”

“Si dice che quelli silenziosi siano ancor più pesanti. E poi, se non siamo liberi di biasimare nessuno, che ne sarà di chi merita di essere lodato?”

A questo punto, le due sorelle riflettono su se stesse.

Beh, io sono migliore degli altri, o almeno di quasi tutti. Tu no?”

“Fammici pensare” disse Rhoda, lasciandosi scivolare all’indietro. “Vuoi dire secondo la mia opinione?”

“Secondo l’opinione degli altri non lo saresti mai, altrimenti non potrebbero esserlo loro”.

Tanto per completare l’attesa di questo libro, ci sono anche le parole che su questa autrice ha scritto Natalia Ginzburg, che ne era una lettrice entusiasta. “[…] Non riuscivo a vedere dove mai fosse, in quei romanzi, la poesia: eppure sentivo che ci doveva essere, se là si poteva, senza aria né acqua, respirare e bere, se si provava, nell’abitarvi, una felicità profonda, consolante e liberatrice […]

Ecco, cito queste parole perché mi risultano vere e, insieme, mi lasciano di stucco: “una felicità consolante e liberatrice”? Se lo dice la Ginzburg, dev’essere così. Se per ‘felicità consolante e liberatrice’ si intende il sentirsi bene perché dopotutto, anche nei nostri peggiori momenti di perfidia, ci possiamo riconoscere unicamente umani, ecco, sì, ne possiamo ricavare una consolazione: si legge, e ci si perdona, ci si sente buoni, come, dopotutto, lo sono ‘loro’. Sono personaggi con i quali si collude. Mentre, come dice ancora Arbasino, in famiglia “si perpetra parecchio, si perpetra continuamente”. In modo civile e formalmente ineccepibile.