
C’è quel particolare momento in cui, nel girovagare tra libri i più diversi, ci imbattiamo in un autore a noi sconosciuto: a noi, beninteso.
Solitamente accade nei giorni in cui, per i motivi più disparati, tra noi e i libri che stiamo leggendo, si è venuta a creare quella certa atmosfera da matrimonio di lunga data: ci si ama, certo, o forse l’espressione più adatta sarebbe “ci si vuole molto bene”, e anche quel po’ di noia è rassicurante. È una conferma.
Eppure, qualcosa manca. Lo stupore, la scoperta; con quella punta di desiderio di andare a vedere cosa c’è là fuori, mentre si arretra, ci si rifugia nella sicurezza di ciò che è noto, amando e riconoscendo i propri compagni di vita (plurale, attenzione: stiamo parlando dei libri, dei compagni di una vita che non si lasciano mai!).
I libri, certi libri, continuano, indifferenti al tempo che passa a parlare ad un nostro oggi che se ne è già andato, ed è diverso; le parole note restituiscono sempre, ancora, significati, risposte a bisogni mai saputi prima.
Bisogni, e significati; domande, lievemente rintuzzate dalla pigrizia, dall’abitudine a godere del vantaggio di ciò che è familiare, e che tuttavia lasciano un sentore di insoddisfazione.
Lo chiamano calo del desiderio. Manca la meraviglia, il sussulto della scoperta, la scommessa su di un cammino da compiere insieme. La scossa vitale del rischio condiviso.
Sono i momenti in cui avviene un incontro. Inatteso. Non ricercato, in effetti. Un libro a caso, una scorsa a una piccola informazione, tanto per saggiare l’autore. Wikipedia, per cominciare, niente di che.
Antoine Volodine, “Gli animali che amiamo”. La casa editrice, 66THAND2ND, già incontrata, promette bene. Vediamo.
“Wong”. È il titolo del: primo racconto? Dev’essere il nome del primo animale di cui, pare, si narri. Forse.
Pagina seguente. Ah ecco: ancora un titolo, “Breve incontro”. Si inizia.
“Wong agitò le imponenti orecchie e continuò ad avanzare. Camminava spedito, schiacciando ogni cosa senza badare. Faceva un gran baccano e se ne infischiava. Gli elefanti non erano molto graditi da quelle parti, lo sapeva bene (…)”
No, non è “Il libro della giungla”. Qui, ci si avventura in una speciale distopia altra. Siamo certi di ciò che stiamo facendo? C’è, nel testo, lo sento, una sottile vena ironica. E una sospensione di informazione. C’è qualcosa. Che non dovrà venir risolto.
Una scrittura scattante, sciolta. E sì, ci si potrà andare a letto. Promette, non esclude, un buon sonno, a un certo punto. Nonostante tutto?
La scrittura che segue mantiene la promessa iniziale; lo sviluppo del racconto allontana tuttavia ogni barlume di attesa sopravveniente sonnolenza. Alla fine del capitolo (racconto?) l’occhio è sbarrato.
Cos’è questo riso che gorgoglia in gola, leggero, totalmente inopportuno? Indecente, persino. A negare e piacevolmente godere l’orrore che stiamo incontrando?
Beh, vediamo, il tutto non manca di una coerenza.
Capitolo secondo. Un secondo nome? Di un altro animale?
“Un ricordo d’infanzia di Sua Maestezza Balbuziar Trecentoquindicesimo”.
Ah beh! Allora le cose stanno così. Proseguiamo.
“Il re Balbuziar si svegliò in una situazione pressoché disperata, il che lo mise di cattivo, cattivissimo umore.”
Ottimo incipit. Proseguiamo.
“Ci si imbatte a volte nell’espressione colloquiale: preso a contropelo. Ci guarderemo bene dal ricorrervi in questo contesto. Da un canto, in ragione dell’alto livello stilistico che è sotteso ai nostri scritti e che sino alla nostra definitiva riduzione in polvere, sino a quando cioè saremo stati tutti destati o uccisi, gradiremmo conservare, e dall’altro perché, fosse pur striminzita o anche solo abbozzata, nessuna stravagante peluria aveva finito per adornare la regale nudità. Nulla di villoso sovraccaricava lo splendore delle superfici nere e lucenti che racchiudevano il molle organismo del re, cui fungevano insieme da scheletro esterno e da corazza.”
Il sonno verrà, a un certo punto. Riluttante, e insieme desiderato.
Dopotutto, credo che dormirò bene questa notte. Cullando un tranquillo orrore e il piacere di una scrittura che lo addomestica perfettamente.
Qui c’è qualcosa da scoprire. Per me. Che arrivo a questo autore solo ora. Che forse scopro l’acqua calda, del genere l’importante è, infine, arrivare.
C’è, qui, qualcosa che mi riporta, nella sua totale diversità – nella sua totale unicità – a emozioni già vissute, nell’incontro con uno sguardo altro, e posso solo ripetermi: con, l’ho già detto, il sussulto della scoperta, la scommessa su di un cammino da compiere insieme. Con lo shock, benedetto, di uno sguardo che ristruttura il pensiero, rivitalizza e rimodella i significati. Vengono alla mente vecchi incontri, totalmente diversi e uguali: Cormac McCarthy, Foster Wallace.
Proseguiamo. Il linguaggio (Schifo! Orrore! Eppure no. Ghigno e piacere profondi) si fa semplicemente sontuoso. Da scoprire, decrittare, acquisire. Guardo subito, cerco le parole o non invece mi godo, e vedrò poi, i singoli lemmi, il confronto con intuizioni semantiche, nuovi modi dell’invenzione?
Un percorso da condividere? Cui prender parte? Non so, non ancora. Capace, sicuramente, di condurre – percorso che l’autore invita, scoprirò in un secondo tempo, a intraprendere – “da un altrove a un altrove”.
Ora sarà il caso di deporre il libro e dormire. Cullati, non orripilati (si dovrebbe? In effetti!), incuriositi e grati. Nonostante; ecco, è il caso di dire: nonostante.
Domani occorrerà esplorare questo autore. Un suo prima, un poi, un cosa.
Antoine Volodine: francese di ascendenza russa, il sessantanovenne Volodine ha al suo attivo una vasta produzione, pluripremiata in patria.
Autore che ha iniziato il suo percorso, era il 1985, nel genere fantascientifico, è ora il rappresentante di una corrente letteraria che egli stesso ha definito “post-esotismo”, e di cui pare essere il solo rappresentante – ma Volodine inserisce tra gli scrittori appartenenti a tale corrente, accanto a sé, con lui, per lui, i suoi eteronimi, di cui i tre principali (parrebbe, se capisco bene, non gli unici) sono: Manuela Draeger, “Undici sogni neri”, ed. Clichy 2013”, Lutz Bassmann (Titoli tradotti in altre lingue ma non in italiano), Elli Kronauer (titoli non tradotti in italiano).
In patria è un autore di culto. La traduzione in italiano delle sue opere si è avviata, a partire dal 2013, con “Scrittori”, traduzione di Federica Di Lella e Didier Alessio Contadini; “Undici sogni neri” (editore Clichy), per la traduzione ancora di Federica Di Lella. Seguirà, per la casa editrice L’Orma: “Angeli minori”, per la traduzione di Albino Crovetto.
Infine la casa editrice 66THAND2ND ha pubblicato (2016) “Terminus radioso”; “Gli animali che amiamo” (2017) e, nello stesso anno “Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima”, il libro che, se capisco bene, costituisce il manifesto del Post-esotismo; tutti per la traduzione di Anna D’Elia.
In questo libro l’autore definirà il post-esotismo, per l’appunto, come “letteratura partita dall’altrove e diretta verso l’altrove, una letteratura straniera che accoglie molteplici tendenze e correnti, di cui la maggior parte rifiuta l’avanguardismo sterile”.
Un particolare rilievo, per poter godere quanto più appieno dell’opera di questo autore, assume sicuramente (come sempre, ma con un qualcosa di più) la traduzione, che si trova a fronteggiare termini desueti, distorsioni dei significati, neologismi, manipolazioni delle parole, fino al parossismo, da coniugare con una ideazione e una cifra stilistica del linguaggio la cui alterità è, senza parere, totale.
Il tutto espresso attraverso l’elevata cura, l’eleganza, della forma, che costringe il lettore, in unità di intenti con il traduttore a riscrivere a sua volta il testo: in questo senso, ecco, sì, possibile che, in effetti, tra gli eteronimi che firmano questi lavori possa essere inserito addirittura ogni singolo lettore?
Si è presi dalla voglia di fronteggiare la scrittura originale, con l’assoluta certezza (per quanto mi riguarda) dell’impossibilità di farlo. Viene sicuramente il desiderio di leggere, quantomeno occhieggiare, le diverse traduzioni.
Difficile, impossibile, separare la fatica dal piacere – posso usare il termine “godimento”? – di questa lettura, dovendo riconoscere tutta l’assurdità di un’emozione impegnata a fronteggiare descrizioni granguignolesche di funzioni corporali, di decomposizione dei corpi, di vita e vitalità del disfacimento dei corpi, in una modalità che dovrebbe venir definita splatter mentre, e lo sperimentiamo, sfugge totalmente a questa caratterizzazione. Tutto molto accettabile, in effetti.
Lo scorso anno Antoine Volodine ha partecipato al Salone del Libro di Torino (che mi sono persa) dialogando con la traduttrice Anna D’Elia.
In rete, la documentazione, gli articoli, nel merito, sono molti.
“Gli animali che amiamo” è stato velocemente terminato.
Per questo libro non è ancora il momento, se verrà, di scriverne. Ora dovrà essere riletto. Dovrà essere tenuto a freno il desiderio-bisogno di leggere subito altro di questo autore. Sarà, prima, necessario esplorare a fondo la meraviglia che il libro ha suscitato; capire, ascoltare, entrare in questa scrittura.
Poi, sarà interessante vedere se, a quella che ha tutte le caratteristiche di un’infatuazione, seguirà l’amore. Magari persino una convivenza.
Avviene – nei matrimoni – che si cambi, che ci si lasci, sospinti o trascinati dalle esperienze: dal mondo che cambia intorno a noi e noi con lui.
Con i libri non avviene. Con i libri, i nuovi amori sono tutti legittimi e non richiedono l’esclusiva. Si possono prendere e lasciare. Riprendere. Dialogare con tutti. Gran bella cosa.