Abraham B. Yehoshua, “Il tunnel”, Einaudi 2018
Traduzione di Alessandra Shomroni
Il libro stava da un po’ di tempo, sul mio tavolo, in attesa. Era un ottimo libro, che mi doveva regalare, come infatti è avvenuto, un buon tempo di lettura dal quale, senza scosse, avrei ricavato di che trattenere, sviluppare, pensieri e, sì, un utile, vivificante permanere di domande prive di ansia e di risposta: pacificate direi; disponibili ad attendere il proprio tempo, avendo trovato almeno uno, due punti fermi, capaci di dare un senso, personalissimo, alla vita.
Abraham Yehoshua è un grande maestro, in questo; nello scandagliare, con un certo distacco, amorevole, se vogliamo, ma pur sempre un utile, giusto distacco, l’animo dei suoi personaggi; nel fare di ogni protagonista del suo mondo un tutto tondo, organizzato per strati sovrapposti, talora giustapposti, con amore, comprensione e grande equilibrio nella composizione.
Ci sono interi mondi di relazioni nelle sue storie. I suoi personaggi vivono e incontrano altre storie; che li contengono e sostengono.
C’è la vita, il quotidiano; ci sono i luoghi – in questo caso Tel Aviv; e il deserto del Negev – nel precedente romanzo di Yehoshua “La comparsa”, (qui) il lettore aveva abitato la specificità di Gerusalemme.
C’è un quotidiano che ci fa conoscere, nel muoversi e relazionarsi del/dei personaggi, una comunità, con le sue regole, la sua prossemica; le sue geografie: una normalità metropolitana nota e, nel contempo, peculiare.
C’è Israele. In particolare in questo romanzo.
Una rete di storie e di letture; mappe, o forse, in alcuni casi, una rete di indizi che il lettore, volendo, potrà utilizzare; che potrà, sempre volendo, lasciare sotto traccia; che sentirà, senza decifrarli perché non è detto che lo si possa fare, o che sia del tutto possibile farlo. Mappe, indizi, che l‘autore offre al lettore ma che paiono fatte per lui stesso, quasi una scrittura segreta, articolata in cose dette e cose sottratte, nella loro interezza, allo sguardo altrui. Paradossale, sotto certi aspetti, ma credo sia così; credo che Yehoshua in particolare operi, nella sua scrittura, questo gioco privato-pubblico; come ogni autore fa, ma con, in più, una specie di scommessa a venir scoperto, denudato, in un gioco a rimpiattino con il lettore.
Troveremo qui storie, e accenni a piccole e grandi storie, accostamenti, riferimenti colloquiali – ci sono molti dialoghi, in questa storia; che in effetti è costruita, in terza persona, da dialoghi, dalla condivisione dialogica di ricordi, del recupero di vecchi incontri, e sì, anche di “Storia”, declinata sul fronte del personale, delle piccole biografie, che si tratti di ricordare un vecchio collega o di deviare, nel corso di un viaggio di lavoro, per visitare la tomba di David e Paula Ben Gurion, nel deserto del Negev, per poi raggiungere e superare il Cratere Ramon, e raggiungere una collina…
È una storia che contiene altre storie, senza lasciarsi deviare, consentendo al lettore di seguirne il filo, fornendole spessore, matericità intessuta su di uno scheletro che si fa persona, vita reale del momento in cui un uomo, ormai prossima alla vecchiaia, è richiesto di collocare un piccolo grande dramma personale dentro un percorso che, fornendo un contesto, ne permetta, nella prospettiva, la relativizzazione e, tappa su tappa, l’accoglimento.
Un (altro) problema della vita da risolvere, da gestire al meglio. Null’altro. Con la finzione di un prendersi cura dei possibili vantaggi collaterali.
La storia, dicevo. Inizia nello studio di un neurologo. L’autore utilizza l’incipit per porre il lettore, con immediatezza, in medias res:
Allora, ricapitolando – dice il neurologo,
Sì, ricapitolando, – sussurra la coppia.
I disturbi non sono del tutto inventati. Abbiamo veramente rilevato un’atrofia del lobo frontale, che potrebbe suggerire una lieve degenerazione neuronale.
Zvi Luria è un ingegnere. Ha lavorato tutta la vita a costruire strade. Era stato un dipendente di “Percorsi di Israele”, il Dipartimento dei lavori pubblici, gestore della rete stradale e autostradale.
È in pensione da cinque anni, ne sta per compiere settantatré. Sta affrontando una progressiva dimenticanza dei nomi e, con i nomi, delle persone; una dimenticanza dei luoghi, dei percorsi.
La diagnosi conferma un decadimento cognitivo, non arrestabile e tuttavia da combattere, giorno per giorno; un decadimento grave, per la sua vita autonoma e per la sua vita di relazione, che richiederanno, da ora, strategie di controllo dei sintomi; strategie, anche, di accoglimento e adattamento del proprio quotidiano a un diverso apparire di ogni giorno e di ogni incontro – con le persone, con i luoghi, con i percorsi.
La moglie, Dina, lavora ancora, è primario pediatra ma, anche per lei, si sta avvicinando il pensionamento.
Il neurologo consiglia al sig. Luria di riprendere in qualche modo il lavoro, di mantenersi attivo; consiglia a Zvi e a Dina di aver cura della loro vita di coppia, di curare l’aspetto della sessualità. Gli appare evidente che si tratta di una coppia con un buon legame.
Una ricorrenza, la festa di pensionamento di un vecchio collega, riporta Zvi Luria alla sua vecchia sede di lavoro dove conoscerà Assael Maimoni il giovane ingegnere che occupa ora il suo vecchio ufficio: è il figlio di Yochanan Maimoni suo storico collaboratore di cui viene a scoprire, solo ora, la vita personale, le difficoltà; e la grave malattia terminale in corso.
Lui non aveva mai voluto conoscere la vita privata dei suoi collaboratori; lo sapevano tutti; se ne teneva al riparo – una specie di, forse malintesa, istanza etica che chiede ora di venir rimossa, superata; che diventa interesse per la vita degli altri, per nuovi modi dell’incontro, anche solo nel ricordo, con le persone che hanno condiviso la sua vita, stimandolo e accettando il suo gentile ma fermo bisogno di distanza.
Leggo con piacere Yehoshua. Un piacere che, tuttavia, al momento di entrare in un suo libro devo impormi di riconoscere, di accogliere, per allontanare una personale incerta forma di respingimento che ha a che fare con la particolare realtà di Israele, con la necessità di preservarne e pacificarne l’esistenza unitamente alla realtà del mondo che la contiene e la circonda; ambedue minacciosi e minacciati nella loro relazione, necessaria e impossibile.
È imprescindibile, lo sarebbe a distanza di mille anni, la necessità di accogliere la realtà storica, l’appartenenza culturale di uno scrittore al mondo e al tempo cui appartiene; e la contemporaneità gioca una parte importante nella lettura, avendola giocata nella scrittura.
In questo libro, narrando il momento in cui stanno per venir cancellati i ricordi, le mappe che guidano ognuno di noi nella vita e nelle relazioni, Yehoshua espande gli indizi che guidano il lettore alla decodifica del mondo di Zvi Luria, della sua identità; privata, sociale e politica.
La “scrittura segreta” prende luce, in questa storia; e illumina una domanda, lasciando alla giusta sospensione le risposte.
David Ben Gurion, veniamo a sapere, riteneva che i palestinesi fossero “ebrei che avevano dimenticato di esserlo” ; non “in seguito a ricerche serie, ma per disperazione”, avendo capito che “il sionismo non raccoglieva molti consensi: non avevano un popolo alle spalle”.
Dentro queste pagine conosceremo Shibolet, il vecchio ufficiale dell’esercito israeliano che ora aiuta Ayalà, una ragazza palestinese, e suo padre, privi di documenti, alle spalle una storia complessa che li esclude da ogni appartenenza.
Conosceremo un luogo, una collina da spianare per farvi passare una strada militare, guarda caso segreta, in costruzione; e la necessità di, invece, conservarla, facendola attraversare da un tunnel, non programmato, essendo la collina il solo luogo dove Ayalà e il padre possono vivere nascosti, a metà percorso tra le loro impossibili appartenenze. Un luogo dove, non casualmente, “non c’è campo” e nessuna comunicazione può transitare.
Conosceremo Noga – un’arpista, madre di un bambino, Nevò, compagno di scuola del nipotino di Zvi Luria: un piccolo richiamo al personaggio del romanzo “La comparsa”, quasi che, facendoci ritrovare vecchi conoscenti, a distanza di tempo e di luogo, la mappa del territorio di Israele e la mappa delle relazioni possibili possano giungere a inglobare una posizione, come personaggio, anche del lettore.
Noga racconterà a Zvi Luria di aver dato al proprio figlio il nome di una montagna che si trova in Giordania, dalla cui cime si vede tutta Israele. E gli dirà che, al momento in cui Nevò sarà in procinto di celebrare il Bar Mitzvah, lo porterà sulla cima: da lì guarderanno Israele “(…) per capire se è davvero il posto giusto per noi o se ci siamo sbagliati”.
Indizi. Domande. Percorsi. E una bella storia umana che – era avvenuto anche con il precedente romanzo – non ci lascerà perché, dopotutto, solo il tener aperte domande, ascoltare, e attendere, pronti ad accogliere ciò che sarà, consente una vita buona; nella quale anche la sofferenza acquisti il senso, costruttivo, dell’identità.
La memoria di Zvi, che peggiora. potrebbe persino essere “una cosa buona, non cattiva.”