Dentro al Libro e al Premio: la ricerca della Qualità

Così, ho guardato bene i titoli in gara per lo Strega – per antico affetto, direi, per un Premio che ha avuto, nel tempo, un suo significato assolutamente di rilievo, il cui esserci è stato importante, utile; e che oggi, non potendo se non vivere, esserci, per l’appunto, nel mondo della comunicazione attuale, inevitabilmente risulterà figlio di un meccanismo di selezione della qualità obsoleto, a rischio di venir travolto da regole di mercato impensabili alla sua nascita; dal rumore di fondo della comunicazione multimediale che lo circonda, dove il libro si deve confrontare con altri mezzi che ne tradurranno, e distorceranno, il messaggio, la fruibilità; che soli ne decreteranno un qualche (siamo in Italia) successo commerciale sui grandi numeri (sempre italiani, è chiaro).

Se ciò non avverrà, quel libro, dico, sparirà, Premio o non Premio, senza funerale alcuno, nel silenzio, senza neppure la gioia di una stroncatura.

Erano una gran bella cosa le stroncature di un tempo; ancora meglio gli scontri sul libro di turno – io lo stronco, tu lo porti alle stelle, ed è guerra: ed ecco il grande successo del libro; quasi come, nella lirica, avveniva con l’epopea Tebaldi contro Callas, a tifoserie schierate! E per finire, a nessuno interesserà più il parterre, o il palchetto reale da cui era stata lanciata la sfida: sarà il loggione ad applaudire e fischiare, a decretare il successo o la caduta. Il pubblico.

Era bello; per pochi lettori, forse, persino meno di oggi, certo, ma per lettori appassionati, che si riconoscevano tra loro. E il grande pubblico (si fa sempre per dire), andando in libreria, possedeva una guida; entrava e sapeva quale libro chiedere e cos’avrebbe acquistato. Se poi il libro non fosse piaciuto, il lettore avrebbe dato la colpa a se stesso e alla propria incapacità di apprezzare tali vette.

Era possibile arrivare a fingere di aver letto il libro in questione, sapendo bene che non si correva il rischio di venir scoperti dall’altro che, a sua volta, aveva finto di averlo letto. Era bene, era male? Non so. Era un metro, convenzionale per definizione ma efficace, per valutare innanzitutto se stessi come lettori: e scusate se è poco. C’era la consapevolezza di una lunga strada da percorrere prima di poter osare un proprio giudizio. Ci si orientava sul proprio posto nel mondo, non solo rispetto al libro.

La stroncatura era autorevole o non c’era; e povero il destino del libro su cui si stendeva il silenzio dei valutatori accreditati. Dopotutto, se il critico di turno decideva di affossare un’opera, beh, si trattava di un grande esplicito riconoscimento. Ci si era rivelati quantomeno degni di provocare un’attenzione di qualità. Qualcuno aveva temuto che quel libro costituisse una minaccia a, che cosa? Al “canone” stabilito da quel Qualcuno e dunque, è chiaro, io-Qualcuno, che sono importante, che devo mantenere il mio titolo a tutelare il canone (o a certificarne il cambiamento, stabilendone il verso) ti dovrò stroncare altrimenti tu, con la tua opera, stroncherai me e la mia funzione.

Bellissimo! Ci sono state stroncature che, se non univoche, hanno fatto la fortuna di più di un libro, credo.

Poi, c’erano, anche allora, i libri di intrattenimento, che non partecipavano a premi; quelli che erano probabilmente, allora come ora, i più venduti: il romanzo rosa, il noir di serie, il libro di avventure. Si trattava di una letteratura minore, dotata di un suo pregio ma che – forse pare solo a me – conosceva e rispettava la linea di demarcazione; e se i romanzi di Liala, o dei Delly (per signore e signorine) e su, fino ai gialli Mondadori (per tutti, anche per il pubblico femminile, superato un certo periodo storico) godevano di un’ampia diffusione, erano anche caratterizzati da un qualche pregio letterario, erano prodotti di buon artigianato, cui accreditare una precisa funzione culturale, insieme di conservazione e di apertura degli orizzonti.

Le librerie vendevano, ma non sempre, gli uni e gli altri; certe librerie più gli uni che gli altri; e la commistione, da parte del lettore, oggi come allora, conosceva un’area di sovrapposizione capace di non confondere i piani: niente partecipazione a Premi, per il genere “di consumo”; niente stroncature, peraltro; Il giudizio era lasciato ai lettori e al mercato.

Posso dire che, oggi, i due piani non sono altrettanto ben delineati?

Oggi vediamo partecipare a Premi letterari accreditati anche opere di largo consumo che, un tempo, nessun critico avrebbe preso in considerazione. Lo dico malamente, vero, ma è così, e non credo si tratti, da parte mia, di snobismo di un qualche tipo. Appartengo alla classe dei lettori quasi onnivori ma credo sia buono e giusto distinguere. Dopotutto, è normale che chi acquista un abito di sartoria acquisti anche la T-shirt al Grande Magazzino, avendo tuttavia il diritto di venir indirizzato dal marchio per orientarsi. Buoni prodotti dall’una e dall’altra parte; per cose diverse e di diversa qualità.

Così, ho guardato, come sempre, i titoli in gara allo Strega, solo allo Strega, non mi avventuro oltre. E come già detto, l’ho fatto con un occhio centrato più sulla casa editrice che sull’autore: peraltro, a parte Antonio Scurati, il cui “M. Il figlio del secolo”, editato da Bompiani, leggerò quasi sicuramente ma non ora, confesso di non conoscerne, per averlo letto, nessuno.

L’attenzione si sposta sulle sinossi ed ecco i temi: per lo più storie di vite altre, di fasi di vita, della fatica che comportano il sé, il mondo e la vita in cui ci si ritrova immersi.

Marina Mander, per Marsilio, una casa editrice che, nel tempo, ha saputo mantenere una propria dimensione e una coerenza con la propria storia; e non è poco. Dell’autrice, non ho ancora letto nulla e potrebbe essere interessante.

Paola Cereda, per Giulio Perrone editore, una casa editrice indipendente, che non credo di aver mai incontrato nelle mie letture; e ancora una storia di vita, di un ritaglio di vita, particolare, nell’età in cui, in un mondo, anche qui, a cavallo tra lingue diverse, case diverse, impone di reinventare, o ricostruire, non lo so, se stessi. Qualcosa di questo genere.

Cristina Marconi, per Ponte alle Grazie; ancora una casa editrice che, con una storia più che trentennale, dopo essere stata rilevata da Longanesi fa parte oggi del Gruppo Mauri Spagnol, anche in questo caso mantenendo, pur in questi passaggi, la propria riconoscibilità.  Una storia di coppia, di una lei italiana a Londra e di un lui, inglese che ha avuto una significativa esperienza italiana, presi forse tra due appartenenze.

Eleonora Marangoni, per Neri Pozza, altro storico marchio di tutto rispetto, capace di mantenere la propria identità e permanere riconoscibile. E ancora, una storia di vita, una ricerca di sé? Interessante, come lo sono le altre storie, ma siamo sempre allo stesso punto. Probabilmente si tratta dell’età, mia: non so bene cosa voglio da un libro ma, almeno al momento, confesso una certa saturazione per le psicologie individuali e di coppia. Ovviamente, il numero delle eccezioni a quanto qui dico e qui nego è elevato.

Valerio Aiolli, per Voland. Si cambia, ecco un romanzo storico, l’Italia da Piazza Fontana all’attentato alla Questura di Milano del ’73, Una storia di formazione, eventi privati da cui guardare agli eventi pubblici. Potrebbe essere interessante. Lo è, sempre, la casa editrice, capace di condurre un progetto editoriale particolare, rivolto sicuramente a un preciso target di lettori da non deludere.

Mi fermo. Con un’osservazione: Dei dodici selezionati cinque autori sono maschi; tra questi, uno solo, Valerio Aiolli, per l’appunto, per le case editrici, come chiamarle, indipendenti? Sono sette le autrici donne, di cui due sole per le grandi case editrici – una su due autori per Mondadori, una su due autori per Einaudi; e una su due autori per La Nave di Teseo che è una strana creatura, ultima arrivata ma che, per nascita, per, vogliamo definirlo confronto con i grandi marchi, non percepisco come facente parte delle piccole indipendenti.

Si tratta di una valutazione del tutto personale e che non so motivare. Dovendo cercare da dove questa percezione mi giunga, risponderei dal Catalogo, generalista (mi si passi il termine). Ne ho apprezzato la nascita. Pure, confesso che non riesco, ad oggi, a identificarla se non, appunto, come una “grande”, con tutto ciò che di positivo il termine porta con sé, e anche come augurio, certo ma, ecco: nel caso di questa casa editrice la mia attenzione va sicuramente, ed eventualmente, al libro, non all’editore e al Catalogo.

Non so, tornando ai libri selezionati per il Premio Strega, e nel ricordo di ciò che, in una società diversa, quel premio ha significato, a parte il libro di Scurati che desidero leggere, Premio Strega a parte, qualcosa mi dice che no, non troverò tra quelli “Il Libro”.

È anche giusto così, non nasce un capolavoro italiano ogni anno, chiaro, ma sono certa che almeno un libro all’anno di alta qualità, ebbene sì, ci dovrebbe essere e a questo dovrebbero mirare i Premi, a farlo emergere dal mucchio e proporlo con forza, in modo qualificato; anche a stroncarlo, in tutto o in parte; anche a dibatterlo, su fronti contrapposti. A farlo vivere, insomma, e a farne qualcosa che possa sperare in una sopravvivenza al tempo breve che oggi hanno tutti i libri, sia quelli che avrebbero guadagnato a non essere pubblicati sia quelli che mai riveleranno la propria età, da lasciare ai figli e ai figli dei figli e che rischiano di sparire nel mucchio.

A proposito di Qualità; e di libri che affrontano il tempo: ho terminato la rilettura di “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”, una storia che parla, per l’appunto, di Qualità – e del perché essa è essenziale per la nostra vita.

È stata una rilettura intensa e molto particolare, di cui mi chiedo se sarò in grado di farne una restituzione. Ci proverò.