A proposito di George Orwell

Come detto nell’ultimo post, a proposito del farsi indicare la strada per la lettura, di libro in libro, dall’autore di turno sono transitata, direttamente, da “Una vita da libraio” di Shaun Bythell (qui) a Letteratura palestra di libertà. Saggi sui libridi George Orwell che contiene, tra altri saggi, anche il breve “Ricordi di libreria”.

Ho scoperto un George Orwell che non conoscevo.

Una premessa. Avendo ovviamente letto “1984” e “La fattoria degli animali”, e pur con tutta la stima dovuta a tali capolavori, confesso che il mio grande apprezzamento per queste due opere non è mai stato associato ad un altrettanto grande piacere di lettura. Peraltro, mi piacerebbe sfidare chiunque a sostenere di aver riletto queste due opere a ripetizione come qualsiasi lettore compulsivo fa, sempre, con i <suoi> grandi libri.

Si tratta senza dubbio di due capolavori, che tuttavia “ti vengono rifilati”, il primo in particolare – o forse te li rifilavano (oggi non so) – e che hanno costituito un (quasi) luogo comune della letteratura prescritta dal canone. Sono stati una specie di vaccino polivalente: adatto a proteggere le giovani menti dal contagio, al tempo temuto, di un comunismo modello URSS, su di un fronte, mentre sull’altro fronte una <sinistra illuminata> li indicava quali grandi opere protettrici dal rischio di venir affascinati dall’ideologia fascista.

Il totalitarismo appartiene, notoriamente, sempre al regime dell’altra sponda e chi, come Orwell, lo avversa senza appartenenze di bandiera formalizzate a prescindere non è particolarmente amato da nessuna delle due parti.

Encomiato, sempre; amato, mai.

Oggi? Cadute le ideologie (ma davvero?) non so quanto questi due capolavori siano ancora in auge. Né, per parte mia, so se davvero lo siano mai stati, fuor di obbligo, se vogliamo dire così.

Aggiungo: non ho mai letto altro di questo autore, neppure “Fiorirà l’aspidistra”; me lo sono proposta molte volte, l’ultima delle quali proprio ieri sera quando ho trattenuto un clic d’acquisto rapido, rinviandolo, nelle intenzioni, a tempi migliori, meno depressi di questo presente.

Ora, con questo “Letteratura palestra di libertà” è giunto lo stupore benedetto che, d’improvviso, mi porta ad amare Orwell; a propormi di leggerne l’intera opera, a scoprirne una realtà che non conoscevo e di cui mai avevo saputo. A scoprirne il tutt’uno con la sua vita e la sua professione di critico e opinionista – e di grande scrittore, certo.

Eric Arthur Blair, in arte George Orwell, ha voluto essere uno scrittore. Nessun dubbio su questo e tuttavia la cosa non è così semplice. La sua scrittura, in tutta la sua eccellenza, è stata per lui lo strumento, perfetto, affilatissimo, per un impegno politico-sociale a tal punto sorretto da grande onestà intellettuale da fargli scegliere (il verbo è appropriato) una vita segnata dalla fatica e dalla povertà, dalla frustrazione del doversi guadagnare il pane, lo stretto necessario, e talvolta neppure quello, con i mestieri più disparati.

Orwell ha immolato la sua vita al servizio di impegni valoriali assoluti; e lo ha fatto in modo tale da rendersi estraneo a, e respinto da, ogni possibile appartenenza.

Un “santo laico” è stato definito. Potrebbe bastare, per evitare l’ossimoro, parlare di un uomo dall’onestà intellettuale puntuta; e nata, forse, tanto per rientrare nell’ossimoro, da un bisogno sublimato di rivalsa.

Nato in India nel 1903, figlio di un funzionario dell’India Civil Service, rientrò in Inghilterra all’età di un anno, con la madre e le sorelle.

Eric Arthur Blair, fu un “Figlio dell’Impero britannico[i]. Fu uno studente brillante, dovendo tuttavia affrontare una forte marginalizzazione sociale conseguente al dover vivere con risorse economiche familiari inferiori alla sua “appartenenza di classe”. La sua vita inglese, i suoi studi, furono avvelenati dallo snobismo di un ambiente fortemente classista che marcava una sua supposta inadeguatezza.

Frequentò Eton, dove fu allievo di Aldous Huxley, grazie a una borsa di studio, salvo poi lasciare gli studi e scegliere il rientro in India dove, nel 1922, si arruolò nella Polizia imperiale.

Fu un abbandono della lotta? Fu una scelta dettata dalla ricerca di un’appartenenza? Un ricongiungimento con la storia del padre (morto? Lasciato in India per permettere alla moglie di crescere i figli nella madre patria?). Dovette costargli molto.

La scelta fu infruttuosa. Si ritrovò nella posizione, simmetrica, di colui che umilia, nella posizione per lui intollerabile di un sopraffattore.

Nel 1927 si dimise e cominciò, con il rientro in Inghilterra e, in seguito a Parigi, la vita di colui che sarebbe divenuto George Orwell – nome con cui firmò il suo primo libro, Senza un soldo a Parigi e a Londra”. Iniziò un percorso di conoscenza della vita delle classi “inferiori”, di scrittura, di azione, e di lotta contro ogni tipo di sopraffazione.

Socialista fervente, non poté mai riconoscersi in alcuna appartenenza: Giornalista. Opinionista politico, attivista, non solo a parole, contro i totalitarismi: una di quelle persone che, in un mondo diviso tra due fronti l’un contro l’altro armati, raggiungono l’obiettivo di venir criticate su ambedue i due fronti”[ii]

Ancora: “…reazionario in tutto tranne che in politica.”

“In questo ambito avrebbe dimostrato un precoce anti-imperialismo nel 1927 dando le dimissioni dalla polizia birmana, un precoce anti-fascismo nel 1936 quando, nella guerra civile spagnola, fu gravemente ferito dai franchisti ed evitò per un pelo di essere eliminato dagli stalinisti, e un precoce anti-comunismo con La fattoria degli animali nel 1944 e con 1984 nel 1946-48, quando il grande alleato «zio Joe» Stalin era ancora visto come il salvatore della civiltà. Ciò non gli impedì di rifiutare un seggio tra i laburisti nel 1945, in quanto «il Labour non era abbastanza a sinistra». “[iii]

Letteratura palestra di libertà. Saggi sui libri” è un libro (per me) inatteso, dove una scrittura di tagliente e tranquilla efficacia, un raffinato discorsivo, mostra tutta la sua grandezza misurandosi con uno scrivere, non solo ma anche per la pagnotta, dei saggi critici di inusuale spessore e di assoluta leggibilità su grandi autori della letteratura di lingua inglese.

Leggendo il suo saggio su Charles Dickens mi si è, confesso, disvelato per la prima volta un altro autore che non ho mai saputo veramente apprezzare. E cui ora potrei, e forse desidero, dare (dando a me stessa) una possibilità: Orwell mi ha consegnato una chiave di accesso al mondo valoriale di Dickens che penso di non dover sprecare.

La lettura che Orwell offre di Dickens è segnata da una grande intelligenza culturale – fatto pure salvo il corrosivo giudizio che Orwell esprime, direi con grande soddisfazione, sui limiti, veri o supposti, della cultura nazionale inglese.

Difficile, soprattutto ingiusto, anche il solo tentare una restituzione di questo ampio saggio, molto articolato, dove la normalità e la perspicuità del pensiero di Dickens sposano, ai diversi livelli, il suo tempo e la sua cultura di appartenenza; evidenziando tuttavia una inattesa capacità di superarle in diversi ambiti.

Seguono, un saggio su Henry Miller, e su “Tropico del cancro: e va sottolineato come Orwell scriva questo saggio in tempo reale rispetto alla pubblicazione (scandalosa) del romanzo, avvenuta nel 1934 in Francia.

Tropico del cancro” sarà pubblicato negli Stati Uniti solo nel 1961, venendo immediatamente denunciato per violazione delle leggi sulla pornografia. E, per la cronaca, nel 1962 in Italia, da Feltrinelli.

(Nota: Si tratta di un altro libro, e di un altro autore, che non ho saputo fare miei. Temo di dover ripercorrere un po’ di strada a causa di questi saggi!)

Anche in questo caso, Orwell spazia collocando l’autore, la sua scrittura, la sua vita nel suo tempo e nei suoi luoghi.

Va tuttavia detto: i soli dieci anni che separano la nascita di Henry Miller (1891), dalla nascita di George Orwell (1903), assegnano i due ad un’appartenenza a mondi culturali totalmente diversi anche se poi la lunga vita di Miller, morto nel 1980 e la precoce morte di Orwell, avvenuta nel 1950, rimescoleranno le carte.

Miller narra della comunità americana a Parigi negli anni ’20-30.

“Negli anni del boom, quando i dollari abbondavano e il tasso di cambio del franco era basso, Parigi fu invasa da uno sciame di artisti, scrittori, studenti, turisti, debosciati e semplici pelandroni quali il mondo non ha probabilmente mai visto. (…) Era l’epoca dei successi imprevisti e dei geni incompresi; la frase che ognuno aveva sulle labbra era <Quand je serai lancé>. Accadde poi che nessuno fu <lancé>, la recessione scese sul mondo come una nuova era glaciale (…)”

Orwell fu, se non il primo, tra i primi a consacrare la grandezza di questo autore, e guida con lucidità il lettore dentro le coordinate che la rivelano.

Seguirà un saggio su Rudyard Kipling.

Kipling è un imperialista sciovinista, è moralmente insensibile ed esteticamente disgustoso. È bene cominciare con l’ammetterlo (…). Però l’accusa di <fascismo> va affrontata, perché la prima chiave per comprendere in qualche misura Kipling da un punto di vista morale o politico è il fatto che lui NON era fascista. Era più lontano dall’esserlo di quanto lo sia ai giorni nostri la persona più umana e <progressista>.”

Detto da uno che accusava il Labour di non essere abbastanza di sinistra, è una utile lettura.

Non ho ancora letto il saggio su T.S. Eliot, seguito da un saggio su Graham Greene. Ho rinviato. Il fatto è che seguono quattro articoli godibili e capaci, senza fronzoli, con amorevole colloquialità, di far riflettere: su grandi temi? Anche sì e anche no, e tuttavia su temi quantomeno interessanti.

Innanzitutto, “Buoni brutti libri” (la definizione è di Chesterton) ci parla di “…quel tipo di libro che non ha pretese letterarie ma rimane leggibile anche quando opere più serie si sono eclissate.”

Tipo, dice Orwell, esemplificando, le storie di Sherlock Holmes.

Segue, “Libri contro sigarette”: a proposito del fatto che leggere è ritenuta un’abitudine costosa ma che molte usuali abitudini, tipo le sigarette, costano sicuramente molto di più. Simpatico. E tragicamente veritiero.

E se “La politica e la lingua inglese” e  “Gli scrittori e il Leviatano” sono forse, per noi, oggi, di minor interesse, le “Confessioni di un recensore” e “Perché scrivo” sono imperdibili.

George Orwell è morto troppo presto, minato dalla tbc e dalla vita povera e faticosa che ha condotto.

Dovrò sicuramente leggere molto altro di suo.

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[i] mi torna alla mente il bel libro di Jane Gardam, (qui), primo di una trilogia: è atteso in uscita, ad aprile, il secondo libro, “L’uomo dal cappello di legno”, editato da Sellerio. Si tratta, per ambedue questi libri, di edizioni precedute da edizioni e/o (2009 e 2011) che, forse, non hanno avuto, al tempo, e in particolare il secondo, la fortuna che meritavano.

[ii]  In: https://www.lastampa.it/cultura/2010/02/23/news/george-orwell-il-fardello-br-del-santo-laico-1.37025067