Daniel Keyes, “Fiori per Algernon”, TEA 2016
Traduzione Bruno Oddera
Avviene: di incontrare un libro di cui si ricordava, labilmente, l’esistenza, e che mai era giunto davvero alla nostra attenzione; e lo si scopre essere un libro importante, di quelli che non lasciano indenne il lettore.
Che poi: il tema è, di suo, importante – obbligatorio dirlo – e dunque, se vogliamo, anche no: è uno di quei temi su cui è stato detto tutto, o così pare. Potrebbe sembrare uno di quei libri che sfiorano il luogo comune, fatti apposta per sentirsi buoni. È un libro assegnato alla categoria fantascienza, a torto o a ragione, e già questo basta, forse, a porlo ai margini dell’attenzione.
Assurdo, ma così avviene.
E invece no: l’aspetto “fantascientifico” è, qui, davvero unicamente uno stratagemma narrativo; e il libro non parla, davvero, nonostante il fascino della storia, del protagonista – voce narrante: parla d’altro; di qualcosa su cui è difficile interrogarsi. Pone interrogativi, senza porre, o non davvero, punti di domanda.
Scomodo, molto, avvertire la domanda su di sé, e scoprire che non viene né richiesta né tentata risposta alcuna. Scomodo: a rischio di rimozione.
E infatti. Emerge un vago ricordo degli anni cui questo libro appartiene – non proprio: del tempo in cui, forse, io l’avevo letto. Non saprei dire con certezza.
Doveva essere intorno al ’68, in quegli anni dai quali oggi, rovistando nel mucchio dei ricordi – dei frammenti di ricordi, in effetti – emergono pezzi sparsi, incongrui, di esperienze, incontri, invenzioni; come quando avviene di rovistare in uno di quei “cassetti dei miracoli” – e non so se si tratta di un mio lessico familiare privatissimo, del nome con cui ai miei figli bambini indicavo quel luogo, solitamente un cassetto di una vecchia credenza, tipica (allora) delle case dei nonni, da cui emergevano giocattolini rotti, ruote di automobiline distrutte e perdute, braccini e teste spaiati di vecchie bambole, sorprese di ovetti di cioccolato , un vecchio yo-yo scheggiato e senza spago, nastrini e pezzi di puzzle mai più indovinabili se non come parte di un vago ricordo.
…e che fine avrà fatto…ti ricordi? Certo, me lo hai rotto tu!
Conoscevo quel libro; forse c’era, al fondo, pure la memoria di un film.
Si tratta di una storia, per un verso, rimossa; per altro verso, resa mia, introiettata (mi pare si dica così, per dirlo bene). Vi ritrovo un mio pensiero, spesso messo a tema, sempre ricacciato.
Era tutto dimenticato, credo proprio là, nel cassetto dei miracoli di quegli anni.
La storia: diario di un anno particolare. Il protagonista-narratore è Charlie Gordon, un giovane uomo, ritardato mentale, che lavora in una panetteria dove svolge lavori manuali semplici: spazzare, fare consegne.
In panetteria Charlie si sente in famiglia, circondato da amici: e ride dei molti scherzi, cattivi, di cui è vittima da parte dei colleghi; ne ride; vi trova quel po’ di affetto – e quel tanto di relazione possibile, immagino, con qualcuno che appare diverso, con il quale non esiste, o almeno così pare, altro da condividere.
Di cosa potresti parlare con un ritardato mentale? E che amicizia, quale cameratismo potrà mai sorgere con qualcuno con cui non puoi condividere interessi e pensieri? Lo scherzo, cattivo per natura, sempre, è una forma di relazione, di cameratismo: giocato sulla sola parità condivisibile. Tra vittima e persecutore?
Charlie ride, e come potrebbe essere diversamente; ridere insieme è il modo attraverso cui transita la possibilità di essere accolto, di far parte del gruppo: di avere amici.
Soffre, Charlie, per il desiderio di essere come gli altri; e la sua mamma glielo diceva sempre: doveva esserlo. Il papà no, cercava di convincere la moglie a volergli bene lo stesso, a farsene una ragione.
Quando la guerra è stata perduta, Charlie è stato espulso dalla famiglia, che aveva una seconda bambina, una sorellina amata, intelligente, da far crescere.
Charlie vuole, con tutte le sue forse, imparare a leggere e scrivere bene; e frequenta la scuola serale della signorina Kinnian. La signorina è gentile, è sua amica.
Proprio in questo momento un’amica (ciao Francesca!), a proposito dei giorni che stiamo vivendo, mi scrive utilizzando un detto, attribuito, come sempre, ad Einstein: “Non puoi usare una vecchia mappa per esplorare un mondo nuovo”. E forse non significa che occorre, ad ogni step della nostra unica vita personale così come ad ogni step della nostra storia collettiva, disegnare una nuova mappa ma che occorre fare a meno di una mappa; significa che l’averla disegnata equivale ad averne oltrepassato l’affidabilità.
E c’è Algernon, un topino cavia da laboratorio, sul quale è stato sperimentato un nuovo procedimento chirurgico capace di triplicarne l’intelligenza. Il professor Nemur, neurochirurgo, affiancato dallo psicologo professor Strauss stanno ottenendo ottimi risultati, tali da poter progettare l’avvio della sperimentazione sull’uomo. Su Charlie Gordon.
A richiesta del professor Strauss, Charlie dovrà tenere il diario della sua esperienza: di cavia? Di prescelto per un esperimento i cui risultati saranno presentati, a distanza di una anno, a un Congresso internazionale.
“Il dotor Strauss dicie che doverei skrivvere quello che penso e riccordo e tutto quello che mi sucederà dora inavanti. Non lo so il perché ma lui dicie che importante perché così vederanno se potrò servire a cualcosa. Spero di sì perché la sinniorina Kinnian dicie che forse riusiranno a farmi diventare inteligiente. Vollio esere inteligiente. Michiamo Charlie Gordon e lavvoro nela panetteria di Donner indove che il signor Donner mi da 11 dollari a la setimana e pane o torta se volio. Ho 32 anni e il mese prosimo sarà il mio compleanno.”
Dall’incipit, mentre la storia pregressa emergerà, a pezzi, dal suo “cassetto dei miracoli” e mentre l’esperienza, che l’evolvere della scrittura svela, si snoda, le relazioni cambiano forma.
“…ora capisco che una delle ragioni importanti per frequentare l’università e farsi un’istruzione è la necessità di imparare che le cose nelle quali si è creduto per tutta la vita non sono vere, e che niente è come sembra essere”
E i professori…”sono esseri umani…e temono che il resto del mondo se ne accorga. E anche Alice è un essere umano, una donna, non una dea, e domani sera la condurrò al concerto.”
Accadono cose.
“Se avessi letto la Bibbia, Charlie, sapresti che non è bene per l’uomo sapere più di quanto gli è stato concesso dal Signore, in primo luogo. Il frutto di quell’albero fu proibito all’uomo. (…)”
“Ogni giorno imparo sempre di più sul mio conto, e i ricordi, incominciati come increspature, ora mi sommergono come alte ondate che si infrangono”
La storia ha uno sviluppo: imprevisto? Forse. Anzi: sì. Ma non risulterà strano come, alla chiusura della storia, ci si senta, solo forse, tristi, e insieme grati di tutto.
E c’è Algernon: un’amicizia; una storia condivisa. La breve vita di un topolino che può essere, come quella di un umano, né breve né lunga: solo vita.
L’autore: Daniel Keyes, 1927 – 2014, è stato uno scrittore classificato all’interno della categoria fantascienza, di cui, in Italia, risultano pubblicate tre sole opere.
“Fiori per Algernon” ha ottenuto, in una prima versione come racconto breve, il Premio Hugo (1960) e, in seguito, riscritta come romanzo, il Premio Nebula (1966).
Pubblicato in Italia, da Longanesi nel 1967, e rieditato nel 1973 in edizione Pocket, è caduto nel silenzio per un lungo tempo, rotto nel 2005 dall’Editrice Nord, immagino con scarsa fortuna – e riproposto da TEA (2016).
Nel mondo anglosassone, è stato un romanzo di grande successo, ed è, leggo, considerato un capolavoro della narrativa contemporanea.
Dal romanzo fu tratto il film, “I due mondi di Charlie”, per la regia di Ralph Nelson, in cui il personaggio di Charlie Gordon fu interpretato da Cliff Robertson che vinse l’Oscar 1968 come miglior attore protagonista.
Dubitando, ancora una volta, del mio non ricordo, ho cercato in rete e recuperato il film. Ne ho interrotto la visione non appena la necessità, ovvia, di una sintesi, ha portato la sceneggiatura a deviare dalla storia in un aspetto importante; e in ogni modo, non ho trovato un film capace, come il libro, di reggere il tempo trascorso dalla sua uscita.
Nel libro, Charlie racconta di sé; e sì, anche di Algernon, sullo sfondo, ma parla a noi, di noi. Parla di fragilità condivise. Parla di relazione. Parla di quella cosa, tante volte detta, in tanti contesti; e sempre rimossa – della fatica, importante e fondamentale, della democrazia, credo.
Mi ritrovo a tornare – credo di averlo già riproposto[i] – alla frase con cui un dimenticato sociologo di quegli anni, David Riesman, chiude la sua opera più nota, “La folla solitaria” (1950):
L’idea che l’uomo sia stato creato libero e uguale è vera e ingannevole allo stesso tempo. Gli uomini sono creati diversi fra loro ed essi perdono la libertà sociale e l’autonomia individuale, per cercare di rendersi simili l’uno all’altro”.
Da parte sua, “Fiori per Algernon” si apre con un lungo esergo, di anomala lunghezza che, a chiusura del libro, val la pena di rileggere:
“Chiunque abbia buon senso ricorderà che le confusioni degli occhi sono di due sorte e derivano da due cause: o perché si proviene dalla luce o perché si è diretti nella luce, il che è valido tanto per l’occhio della mente quanto per quelli del corpo; e chi ricordi questo, quando vede qualcuno la cui visione sia perplessa e debole, non sarà troppo incline a ridere; per prima cosa domanderà se l’anima di quell’uomo sia emersa dalla vita più luminosa e non possa vedere perché non è assuefatta all’oscurità, oppure se, essendo passata dalle tenebre alla luce, sia abbacinata da un eccesso di luce. E riterrà l’uno felice nella sua condizione e nel suo stato e compassionerà l’altro; oppure, qualora si senta propenso a ridere dell’anima che emerge dal basso alla luce, questa sua ilarità sarà più giustificata della risata che accoglie colui il quale torna dall’alto fuori della luce e nella tana.
(Platone, La Repubblica)
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