…e dunque, val la pena di rimanersene, per un qualche tempo ancora, in campagna, con Giovanni Boccaccio e in bella compagnia, a spettegolare, con la scusa di narrare novelle, quale allegra, quale triste, qual altra un poco ardita e tale da far arrossire le fanciulle del tempo (e anche no); quale densa di insegnamenti morali (si fa per dire) o, più utilmente, su storie di vita tali da renderci accorti, accrescendo la nostra esperienza sui fatti del mondo.
Cento storie, dieci al giorno, cariche di ameni pettegolezzi su fatti chiacchierati, costituiscono un bel mucchio (anche) di malignità succose, per quanto le si voglia acconciate in forma letteraria; quantomeno, costituiscono un bel malloppo di informazioni d’epoca rivelatrici su usi, costumi, credenze, stili di vita, buone azioni e comportamenti censurabili, beffe e quant’altro.
C’è, sicuramente, e già dal primo giorno, la dovuta novella, per l’appunto, boccaccesca – e le fanciulle provvederanno ad arrossire doverosamente ma solo dopo averne gradito l’ascolto; una novella il cui svolgimento trova luogo adatto in un convento di frati: e dove mai se no. “Osteria numero uno…”
Occorrerà ricordare la nascita, datata ormai tre secoli prima, delle università di Bologna (nei dintorni del 1088) e di Padova (1222), e le consuetudini dei clerici vagantes, studenti poveri che si spostavano per l’appunto, tra una e l’altra sede, nucleo originario di quella tradizione che sarebbe stata nota con il nome di Goliardia, mentre nella allor giovane Università di Firenze (vagante anch’essa, alle sue origini, tra Firenze e Pisa) Giovanni Boccaccio insegnava la Divina Commedia ancora neppure fresca di stampa; ancora, vogliamo chiamarla così, in forma di dispensa. L’opera che Boccaccio chiamò Divina, e che come tale rimase connotata da allora in poi.[i]
No, è solo per dire perché, dall’alto della nostra modernità, qualcuno magari neppure ci pensa che il cosiddetto linguaggio “boccaccesco” era, per l’appunto, molto frequentato, all’epoca e, di fatto, mai diede grande scandalo. Al tempo, persino la Chiesa ci mise un bel po’ a censurare il Decameron e sì che ci sapeva fare, era ben capace di agire, diremmo oggi, in tempo reale.
Sta a vedere che ci scandalizziamo maggiormente oggi. Non me ne stupirei.

Ho googlato (scusate il termine, questo sì davvero osceno), tanto per completare il quadro, la Polifonica Vitaliano Lenguazza (e se qualcuno non la conosce, ma forse dovrei dire non l’ha conosciuta, peggio per lui) senza trovare un solo pezzo, come dire, “cantato”, dotato di testo – solo qualcosa, internazionalmente accreditato come il Gaudeamus igitur, ampiamente sdoganato in quanto sdoganabile; e una sola prima strofa cantata – segue solo orchestra – de La mona dele galine se la magna col pan…”.
Soprassediamo: era un mondo universitario maschile, che tale è rimasto, quantomeno nell’immaginario, fino a tempi recenti ma che, inevitabilmente, necessitava di una fattiva connivenza femminile.
Beh, insomma, il mondo in cui si svolgono le novelle del Decameron era un mondo così, proprio come quello che conosciamo, e che, come in ogni tempo avviene, pensiamo di aver inventato. E mi chiedo: sarebbe davvero oscena una traduzione di queste opere in italiano moderno? Dopotutto, ci rifilano ancora la traduzione dell’Iliade di Vincenzo Monti “poeta e cavaliero, gran traduttor dei traduttor d’Omero”, come lo stigmatizzò Ugo Foscolo. Diciamolo: una buona trascrizione, a regola d’arte, renderebbe fruibile quest’opera che lo merita; che soprattutto non merita di venir sterilizzata dentro annoiate aule scolastiche e ridotta alla favoletta di Chichibio e la gru per fanciulli preadolescenti.
Ne ho trovata una, in verità ma, ammetto, non l’ho scaricata (e-book), non avendo trovato informazioni di alcun genere in merito – e forse sbaglio, chi lo sa.
Ora, faccio del mio meglio per non “spoilerare” il Nostro ma, essendo io trevigiana, non posso esimermi dal proporre la prima novella della seconda giornata ove si narra della santità di tale Arrigo, o Enrico, tedesco di Bolzano, che visse e morì a Treviso e della beffa che, al suo funerale, fu inscenata da tale Martellino.
Era, questo tale, un fiorentino che, con due amici, l’uno chiamato Stecco e l’altro Marchese, usava viaggiare e visitare i palazzi dei signori, ove i tre mettevano in scena beffe, imitazioni e facezie che molto divertivano gli amici e chiunque li stesse a vedere.
Si racconta, dunque, che Enrico, un sant’uomo che viveva facendo il facchino, trasferitosi da Bolzano a Treviso dove perse moglie e figlia, fosse noto come uomo buono e fervente cristiano, che ogni giorno visitava e ascoltava la Santa Messa in ogni chiesa della città o giù di lì.
Così lo descrive il Boccaccio in questa novella:
“Era, non è ancora lungo tempo passato, un tedesco a Trivigi chiamato Arrigo, il quale, povero uomo essendo, di portar pesi a prezzo serviva chi il richiedeva; e con questo, uomo di santissima vita e di buona era tenuto da tutti. Per la qual cosa, o vero o non vero che si fosse, morendo egli, addivenne, secondo che i trevigiani affermano, che nell’ora della sua morte le campane della maggior chiesa di Trevigi tutte, senza essere da alcun tirate, cominciarono a sonare.”
Beh, non ci voleva altro per decretare, a furor di popolo, la santità di Enrico: figura storicamente documentata – nato intorno al 1250, morto a Treviso, dove sono conservate le sue spoglie, il 10 giugno del 1315, oggi è Santo Patrono di Bolzano e copatrono, con San Liberale, di Treviso, dove gli è stato dedicato un Tempietto, restaurato in anni recenti.
E la novella? Come riportato da Boccaccio, si tratta più precisamente di una storiella su fatti e persone altrettanto storicamente rintracciabili, dato che tali sono anche i tre burloni di cui si narra e che provvidero a dissacrare l’ostensione, nel Duomo di Treviso, della salma di Enrico da Bolzano.
Enrico abitava nei pressi del Duomo, in una povera stanzetta vicina al luogo dove ora si trova il Tempietto a lui dedicato e, alla sua morte, il corpo fu trasportato, al grido di miracolo, nel Duomo stesso perché vi fossero condotti
“zoppi, attratti[ii] e ciechi e altri di qualunque infermità o difetto impediti, quasi tutti dovessero dal toccamento di questo corpo divenir sani.”
Non ci voleva altro. I tre burloni fiorentini, che passavano di là, desiderarono vedere a loro volta il corpo del santo ma ne erano impediti dalla folla.
Dei tre fu, per l’appunto, Martellino a risolvere la difficoltà proponendo di fingersi paralizzato e tutto rattrappito. Così, mentre i suoi due compagni avrebbero finto di sostenerlo, avrebbero potuto chiedere che fosse portato al cospetto del santo per essere guarito.
E così fu.

“Martellino si storse in guisa le mani, le dita e le braccia e le gambe e oltre a questo la bocca e gli occhi e tutto il viso, che fiera cosa pareva a vedere” dopodiché, fatto entrare nella chiesa, fu “prestamente preso e sopra il corpo posto, acciò che per quello il beneficio della santà acquistasse.”
Essendo Martellino un bravo attore, e un bravo burlone, dopo poco cominciò “a far sembiante di distendere l’uno dei diti e appresso la mano e poi il braccio….Il che vedendo la gente, sì gran romore in lodo di Santo Arrigo facevano, che i tuoni non si sarieno potuti udire”.
Senonché, tra la folla si udì una risata e una allegra imprecazione, da parte di uno che conosceva bene sia Martellino sia i suoi amici:
“Domine fallo tristo!! Chi non avrebbe creduto, veggendol venire, che egli fosse stato attratto da davvero?”
Scoperta la burla, una folla inferocita accusò Martellino di aver voluto irridere il loro santo, e inizio a prenderlo a calci e pugni mentre i suoi due amici si ritiravano in buon ordine per non fare la stessa fine.
Lo salvarono i gendarmi, ma non per molto, e ai guai si sommarono i guai.
Il, si fa per dire, pover’uomo, fu tradotto davanti al magistrato e all’accusa si sommò accusa, alle botte seguirono le frustate, in previsione di farlo rapidamente impiccare non solo come profanatore del santo ma anche come tagliaborse.
Fu quasi un vero miracolo se, alla fine, per i buoni uffici di amici e per l’intervento in suo favore di tale Sandro Agolanti, trevigiano di origini fiorentine, a sua volta personaggio storicamente documentato, il tutto fu ricondotto alle sue vere dimensioni.
Portato dall’Agolanti innanzi al Podestà di Treviso, questi si fece due risate, diede al malcapitato di che rivestirsi e lo pregò di ritornarsene rapidamente in quel di Firenze.
Da parte sua Martellino assicurò che avrebbe lasciato immediatamente Treviso “per ciò che infino che in Firenze non fosse stato gli parrebbe il capestro aver nella gola”.
La novella, o cronaca che dir si voglia, rallegrò molto le fanciulle e così Filistrato, invitato da Neifile, si apprestò a raccontarne una nuova. E, per rimanere in tema, ma non troppo, così iniziò:
“Belle donne, a raccontarsi mi tira una novella di cose catoliche e di sciagure e d’amore in parte mescolata.”
Avrebbe potuto essere altrimenti, soprattutto in tempo di peste?
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[i] Boccaccio 1313 – 1375: Trattatello in laude di Dante… la “divina” commedia: sarà pubblicato nel 1477 come Prefazione alla Commedia stampata dai tipografi tedeschi Giovanni e Vindelino da Spira
[ii] paralizzati