
Sto per ingarbugliarmi in chiacchiere su di un tema troppo vasto. Ma mi permetto una chiamata in correità rinviando all’interessante articolo (e ai seguenti) di Pina Bertoli a tema: Le saghe familiari e il loro essere un <genere> di grande interesse per i lettori (oltre che uno scaffale di grandi libri). Anche se l‘ho presa da molto lontano e, temo, a rovescio. (qui)
Non lo ripeteremo mai abbastanza: leggere è, oltre a molto altro, incontrare mondi diversi dal nostro, e tempi – età che non sono la nostra, che lo saranno o lo sono state; tempi che non ritorneranno eppure parlano al e nel nostro presente.
Leggere è tante cose. Potremmo persino mettere in guardia dalla lettura: che amplia la nostra vita, ma non tutto nella vita è bello, o desiderabile, e dunque?
C’è tuttavia qualcosa che rende ogni libro (quello che supera il tempo, e quello che si perde) un percorso dotato di una propria necessità; qualcosa che ha a che fare con la storia di una comunità umana – che al nostro tempo possiamo dire globalizzata, ma non è sempre stato così (e ancora, in parte, non lo è, né lo sarà mai).
Il fatto che un libro, o un genere, sia attrattivo per il lettore, ha certamente a che fare con la sua qualità, diciamo, letteraria, ma ha a che fare anche (e talvolta soprattutto) con il fatto che possegga una significanza all’interno di un contesto culturale dato.
Ci sono libri che durano la vita di una farfalla e libri che oltrepassano i secoli – anche magari solo perché il dio del caso ha salvato i loro supporti facendoceli pervenire, quelli e non altri: e tuttavia, pure il caso si muove di necessità lungo il percorso temporale di un assetto culturale dato che, nei cambiamenti, abbia scelto di mantenere memoria di un proprio percorso storico e subito cambiamenti all’interno di un quadro di continuità.
È necessaria una struttura, di una società in un tempo dato, per rendere un libro intelligibile, per coerenza come per opposizione ma comunque all’interno di un paradigma, di un modello esplicativo condiviso.
Su queste basi, il libro costituisce l‘accesso dell’uomo al proprio bisogno di vittoria sulla morte; al bisogno di chi resta di continuare ad accedere al dialogo con chi se ne è andato; al bisogno di far sopravvivere la propria voce al breve tempo della propria individualità.
E scopriamo di non poter selezionare, che so, un certo numero, discreto, di libri utili, e finirla là. Non che non ci abbiamo provato: la Bibbia, il Corano…Il Capitale. Diciamo pure che non ha funzionato – il ritenerli, da soli, buoni per ogni tempo e al di fuori della storia. I danni conseguenti al tentativo sono stati e sono devastanti.
Il fatto è che, nel suo essere sempre uguale a se stesso, ogni singolo esemplare della specie umana pare essere un infinito in potenza, e ha bisogno di cercare, e cercare ancora, se stesso, solo e unico, irripetibile e sempre uguale.
Resta, tuttavia, quel problema (o quella risorsa): il bisogno di un contesto culturale; di una struttura che fornisca un confine, e dunque uno spazio discreto, alla ricerca; una mappa del territorio entro cui cercare.
La natura della nostra specie richiede una cultura condivisa, entro cui dire questo sì, questo no, entro cui scorporare la non intelligibilità di un segno, anche per opposizione, essendo necessaria l’affermazione per poter porre il suo opposto.
C’è bisogno dunque di una struttura, per poterci riconoscere nello spazio e nel tempo, e attribuire significati a ciò che siamo e a ciò che facciamo. E questo vale per la nostra biologia come per la nostra natura culturale.
“Quale struttura connette il granchio con l’aragosta, l’orchidea con la primula e tutti e quattro con me? E me con voi? E tutti e sei noi con l’ameba da una parte e con lo schizofrenico dall’altra? …Qual è la struttura che connette tutte le creature viventi?”[i]
Da cosa deriviamo la bellezza di un romanzo, di una poesia, di una scultura, di una musica…di un paesaggio – riconoscendola in modo condiviso? Perché concordiamo nel trovare brutto o privo di significato qualcosa? Come selezioniamo ciò che vediamo ascoltiamo annusiamo…?
“Per estetico – diceva ancora Gregory Bateson – intendo sensibile alla struttura che collega!”
Occorre che una cultura fissi <Il Canone>, per identificare i propri valori e il proprio sapere, per stabilire cosa può venir scritto, cosa si dovrà leggere, cosa espellere mentre, essendo le culture organismi viventi, esse stesse cambiano, evolvono, modificano il proprio ambiente e si modificano in modo adattivo. Nel processo di cambiamento ci sarà sempre tuttavia qualcuno che scriverà in dissonanza, e qualcuno che leggerà – e allora il gioco diventerà a indovinare di cosa si tratta.
Avremo sempre tra le mani, in ogni momento, un’opera che rompe gli schemi prescritti, pure se Il Canone non ne ha ancora sentore; ci sarà sempre un autore che coglie il cambiamento in corso, che lo anticipa, lo facilita, gli dà voce.
Se troverà ascolto sarà il precursore: ed ecco Virginia Woolf, ed ecco James Joyce, che non sono nati come classici; ecco Italo Calvino, e nemmeno mi provo a dire chi, oggi, sopravvivrà ad un tempo che sta scalzando un Canone obsoleto – come ogni vivente, le istituzioni non accolgono senza combattere la propria fine; e la loro voce ufficiale, vedi i loro Premi Letterari, consacrano (non sempre: quasi sempre) chi non rompe le righe; indicando un’opera di valore, perché no, ma a patto che permanga all’interno del Canone.
Nel contempo, ci saranno opere che rompono gli schemi fuori tempo; nel modo sbagliato; con forse una giusta intuizione ma senza gli strumenti del genio, tanto per utilizzare un’iperbole.
Saranno opere che cadranno nel vuoto. Se va bene, il loro messaggio fallito sarà raccolto da qualcuno capace di fare meglio.
Nei secoli, assistiamo a percorsi carsici: opere che spariscono, opere che riemergono. Per restare nella modernità – altra cosa, soprattutto di questi tempi, dalla contemporaneità – mi domando: è ancora in auge, nelle nostre scuole superiori “I Malavoglia”? All’esame di maturità del tempo mio mi sono sentita chiedere, al fine, suppongo, di poter certificare la mia raggiunta cultura letteraria, il vero cognome dei Malavoglia, il colore delle calze di Lucia nel giorno del matrimonio e il nome del cocuzzolo dove ‘Ntoni Malavoglia era andato a fare contrabbando (o qualcosa del genere):
Per la cronaca (nell’ordine): Toscano, rosso, non lo ricordavo e ci tengo a non ricordarlo.
Oggi esiste una pluralità di mondi letterari altri: che <Il Canone> non accredita: perché una cultura, qualsiasi cultura, ti dice <cosa> leggere; è la sua funzione. E neppure apro il tema della multimedialità. Della evoluzione del modello Gutenberg.
Cosa si salverà. Cosa si perderà?
Pina Bertoli, con il suo articolo, e con i seguenti ha aperto un tema enorme: gli è che la categoria <saga familiare> ha una data di inizio, relativamente recente, anche se non la saprei indicare, quantomeno non a partire da un’opera, diciamo esemplare; ha a che fare con lo sviluppo della società industriale, con la nascita del romanzo borghese, con una totalmente nuova struttura della famiglia che tale società ha istituzionalizzato al punto da farla percepire come <naturale>, declinando in un nuovo modo il Patriarcato (sempre lui: la continuità nel cambiamento) e il ruolo, fondativo, della donna in esso.
Con la nascita della società industriale una nuova famiglia si troverà a vivere dentro una inedita forma di mobilità sociale; si apriranno percorsi inediti di salita della scala sociale per una nuova borghesia, attingibili a partire da un “dettame”, da una prescrizione del Capofamiglia che asservisca a sé – con finalità dinastica – le vite dei figli; un percorso che legherà il valore del nome di famiglia al denaro e al potere connesso (che sia l’impero industriale o la povera “roba” dei Malavoglia, o il vinto don Gesualdo).
Le saghe familiari appartengono a questa epoca del mondo occidentale; così come vi appartiene una totalmente nuova figura di donna: moglie e madre “per natura”, custode della cultura familiare, titolare di una inedita funzione di educatrice dei figli in obbedienza alle prescrizioni del Capofamiglia; una funzione che, ancor oggi, viene considerata come “istinto naturale della donna”: e mi torna in mente “L’amore in più”[ii], un interessante saggio di Elisabeth Badinter (filosofa, figura controversa del pensiero femminista), che documenta come, in tutto il corso della storia occidentale mai, prima dell’era moderna, e al di fuori del mondo occidentale industrializzato, siano esistite questa <natura> e questa funzione femminile.
Tra parentesi, non sono dimenticabili, a partire dall’opera di Sigmund Freud e dagli studi sull’isteria femminile (malattia tipica di un’epoca e della cultura che la esprimeva, oggi quasi scomparsa, e strettamente connessa con la patogenicità di una specifica struttura familiare (e dei suoi vincoli sul femminile), i significativi risultati in campo psicoterapico dell’approccio sistemico-relazionale che, non a caso, individua la necessità, nell’aiuto al disagio psichico, di prendere in carico non quello che viene definito il “paziente designato” bensì il suo contesto familiare; e che fa riferimento alla storia familiare prendendone in considerazione, guarda caso, la storia trigenerazionale: che è, solitamente, l’arco di tempo e di storia familiare proprio delle saghe, che descrive un percorso di salita, vetta, decadimento.
Le saghe familiari sono storie di grande fascino. Tanto più interessante, oggi, il genere quanto più rappresentativo del bisogno di consegnarlo alla storia? Sarà secondario il fatto che tutte le saghe finiscano male? Appartengano, tutte, a un “Ciclo dei vinti”, come Giovanni Verga insegna?
[i] Gregory Bateson, “Mente e natura”, Adelphi 1984
[ii] Elisabeth Badinter, “L’amore in più. Storia dell’amore materno (XVII-XX sec.)”, Longanesi &C, 1981