Nel sogno delle cose vere

Giulia Sara Miori, “Neroconfetto”, Racconti Edizioni 2021

Ventun racconti. Dove tutto si avvia da una ninna nanna nera in esergo.

Lullaby[i]

There was a little boy so fair / With long blond curly hair / Sweet in his bed he did lie / In soft blankets did he cry.

On a silk pillow his head rests / His mother’s nerves would he test.

Into the garden, the garden of dreams, / Where all is strange, and nothing seems.

Found alone in a strange place / Dropped from a height he left not a trace.

A. MC.

***

Poi, questo libro ti cattura. Non so dire come e perché.

Facendoti male: va detto.

I racconti lo fanno, talvolta. Mentre la presa della storia, l’essenzialità della narrazione, rendono impossibile la fuga. Mentre ti ritrovi quasi a chiedere, non so, che qualcosa qualcuno venga a liberarti dall’incubo, eccoti agganciata dal racconto che segue; eccoti ritornare a due racconti prima perché: come è avvenuto che l’angoscia non risulti più tale? Com’è questo senso di normalità che ti fa – ecco, di nuovo – ritornare al racconto appena chiuso. Ed eccoti all’incipit del nuovo racconto.

Ne avevo anticipato qualcosa dicendo:

Ne leggi uno. Prosegui. Leggi il secondo. Ti arresti.  Torni al primo.

Sei convinta? No? Sì, complice la curiosità di scoprire che cosa sia questa scrittura.

Ho scelto il tempo, il ritmo di lettura sbagliato, dici a te stessa. Riprendi dall’inizio. Prosegui.

Ti arresti.

Sono tutte storie/pensieri della normalità, veduta dall’interno di una relazione – che poi, la relazione, il suo sogno, è per l’appunto, il reale. Che fa male, è ovvio. Lo sappiamo tutti.

Lo sappiamo a tal punto da non parlarne: cosa dire se non: è andata così, la storia è questa, è accaduto.

Voci femminili che narrano – e no, ci sono due voci maschili che narrano/ricordano: ancora e sempre, in una storia di relazione al femminile.

Storie/pensieri. Ricordi/riflessioni. Giustificazioni? Illuminazioni. Improvvise, e conseguenti, semplici, ovvie. Incubi. Del tutto come la vita e i nostri pensieri sulla vita. Di ogni età.

Ci sono la bambina, la ragazza, la madre, la vecchia donna. Insieme. A farsi compagnia a farsi del male. A fuggire dal male. Sole.

D’abitudine non accade che qualcuno scelga di dirle, le storie di ogni giorno, di dar loro voce. Talvolta non sarà più possibile. Talvolta sarà qualcun altro a doverle raccontare.

Sono storie che fanno male, dicevo; come tutte le storie immaginate dentro il reale. Sono storie costruite/che costruiamo per noi, storie che infine nulla cambiano; senza giustificazione alcuna per ciò che accade. Fatica inutile come la vita di ognuno. Pure, giunti alla fine, giunti all’ultima pagina, è strano non sentir male. Anzi. Da dove viene questa sensazione di pace?

È tutto come quando una storia, qualcosa che è accaduto, trova un suo posto, stabile, definitivo, tra le cose note, o solo pensate. Da accogliere – accettare – comunque, come Vita.

Bene, lo sapevamo, tutti. Non se ne parla mai, perché fa male e, dopotutto, si tratta di cose – fatti, pensieri – che potrebbero non essere.

Appartengono a tutti le fantasie? Oppure: a ognuno la sua? – ma com’è che ora, dopo che tutto è stato detto, dopo che tutto è accaduto, dopo che tutto si è chiuso, mi sento bene? Cos’è questa sensazione di un peso che è stato deposto? Di qualcosa da cui ci si è liberati?

C’è stato un signore che ha detto, sbagliando, come nessuno, vale a dire ognuno, visto da vicino, sia normale. E ora, guarda un po’, Franco Basaglia aveva torto, dopotutto. Solo la lontananza mostra le differenze. Il ricco il povero il bello il brutto il buono il cattivo; quello che fa cose e l’altro che non le fa: chi sceglie diversamente, chi non sa di aver scelto. Chi pensa di esser solo con le proprie storie e i propri pensieri.

Di questo si tratta, credo: con questi racconti Giulia Sara Miori ci ha fatto, in realtà, una carezza; ci ha rassicurati: nessuno è solo. Qualcuno/tutti sta/stanno male, ma non sono soli con le loro fantasie, con interpretazioni/pensieri dolorosi che creano il reale; con la fatica del vivere.

Da vicino, veduta da dentro, c’è una realtà, del mondo e dei pensieri che gli danno forma, che accomuna tutti: è la norma. E, per l’appunto, fa male.

Poi, non più. Una volta detto, una volta letto (ma lo sapevamo già, sapevamo tutto), si tratta solo di pensiero che può essere lasciato andare, che può farci tornare alle nostre tranquille rassicuranti differenze; che dà forma alla realtà, di tutti – come altrimenti lo riconosceremmo?

Racconto su racconto, l’autrice ci sussurra che dopotutto, va bene così. È la quotidianità, diversa e uguale, di ognuno.

Non c’è nulla di cui aver paura.

Devo proprio ridirlo: ecco un libro che fa male. Un libro che non ti lascia fuggire. Un libro che, alla fine, girata l’ultima pagina, ti lascia bene, proprio bene. Dentro il sentimento corale della condivisione.

Ora possiamo davvero riprendere dalla prima storia, rileggerla. Poi, ci regaleremo del tempo, tra storia e storia. Rivisiteremo pagine – una visita, un tè delle cinque, torta e caffè. In compagnia.

Domani, restituiremo ad un’altra storia la visita che ha compiuto a casa nostra. Non ci soffermeremo più del dovuto: sarebbe maleducazione.

Ci presenteremo per un colloquio ad un’altra storia ancora.

Presentarsi solo motivati. No perditempo. Esperienza richiesta.

Leggo, ancora, racconto dopo racconto. Concentrata, che non una parola vada perduta; che non un’implicazione se ne fugga. Cocciutamente impossibilitata a interrompere la magia.

Rileggeremo, sarà necessario, e tuttavia già la prima lettura dovrà essere <tutto>. Niente distrazioni. E tuttavia, è ancora, è sempre, presto per capire.

Ventun racconti, dicevo. Storie al femminile. I temi?

Normali (questa parola mi ritorna: qui è tutto normale – quotidiano).

Due amiche vanno a fare shopping; una ragazza narra, compera una giacca, incontra, fugge.

La compagna di scuola, grassa, sciatta e indifferente.

Una giovane donna ha un bambino; un’altra fa la baby sitter.

Poi, la voce di una mamma:

Me la ricordo così, la mia piccola Lucille, la mia piccola, cara, Lucille, la mia bambina con le trecce bionde, me la ricordo distesa nella bara. (…) Per lei la morte è stata un sollievo. E anche per me, perché la mia Lucille ne ha passate tante. Ha smesso di soffrire la mia Lucille, finalmente ha smesso di soffrire e ora è sottoterra e non piange più.”

E ancora: una clinica, per dimagrire? Ragazze. Chi dirige?

“L’unica cosa che ancora non va è il rapporto tra massa magra e massa grassa”.

Storie. Rimanere da sole, ricordare. Andare a vivere da sole. Incontrare.

È davvero un ricordo il tempo che passa? È una fantasia?

Poi ancora: storie del quotidiano. Erano accadute cose. Tra lui e lei. E l’altra?

E quando la tragedia accade, chi ha visto cosa? 

Lei lo attende. “Ci vuole pazienza”. Ma la vita può essere guardata senza occhiali, oppure con gli occhiali.

Ciò che importa è dire la verità: sulle relazioni, su di noi, sul mondo in cui ci muoviamo, e incontriamo. Su ciò che dovrà essere per sempre – ma tu, e io che leggo, lo sai/lo sappiamo cos’è “per sempre”?

Devo pur chiedermi se qualcuno è giunto a leggere fino a qui; ma come si fa: di questa lettura posso solo, desidero solo, narrare un’esperienza. Non c’è altro da fare. Sono racconti, dopotutto.

Sappiamo bene come un buon narratore/una buona narratrice – e se avevamo dei dubbi in merito queste pagine ce li tolgono tutti: e col cavolo che Madame Bovary c’est moi! – sia quel/quella tale che narra una storia, individuale, anche corale, con le sole poche parole sufficienti e necessarie. Quelle: non altre. Non commentabile, a meno di uno spoiler bieco che, irrimediabilmente chiederà di usare molte più parole del testo stesso, oscurandolo, disfacendolo.

La scrittura. Ancora una volta: di questo si tratta. Un fraseggio lineare. Nessun se, nessun ma. Nessuna ipotetica.

Tempi verbali al modo indicativo. Una scena, un centro dell’azione, una chiusura, secca come una pistolettata. Che, poi, ti aspetti. E no. Sarà ancora inattesa. E necessaria.

È <racconto>, al suo massimo.

Si tratta (almeno quasi, credo) di un’opera prima. In cui l’autrice cattura la (una, tante) vita. A tutto tondo.

Una scrittrice da seguire: ma che ha già dato. Non serve altro per accreditarla.


[i] C’era una volta un bambino oh così biondo, / Con capelli lunghi e ricci, / Che riposava dolcemente nel proprio letto / E piangeva tra le soffici lenzuola.

La testa su un cuscino di seta giaceva / Mentre i nervi della mamma lui a dura prova metteva.

Nel giardino, il giardino dei sogni, / Dove tutto è strano e niente ha senso.

Si è trovato da solo, in uno luogo strano / Caduto dall’alto, non ha lasciato traccia.

L’esergo ha una attribuzione – A. MC. – il cui significato non so proprio sciogliere. Mi incuriosisce.