Questa donna dev’essermi entrata sotto la pelle. Per più motivi; che fanno più argomenti, cosa che, per scrivere un pezzo, non è il massimo.
C’è che sento qualcosa chiedermi giustificazione per il mio passato respingimento di questa autrice; ma anche qualcosa che continua a sostenere tale respingimento.
Così, a naso, direi che qualcosa ha a che fare con l’autrice; e qualcosa ha a che fare con le sue storie e la sua scrittura.
L’autrice: Fred Vargas
Nome d’arte di Frédérique Audouin-Rouzeau, nata nel 1957, francese.
Frédérique Audouin-Rouzeau è una scienziata: ricercatrice di archeozoologia presso il Centro Nazionale Francese per le Ricerche Scientifiche. Ha studiato, in particolare, i meccanismi di trasmissione della peste dai topi all’uomo. È inoltre specializzata in medievalistica.
Figlia di una madre di professione chimica, e di un padre scrittore, nelle trame inusuali dei suoi romanzi si ritroveranno le sue competenze scientifiche e le sue aree di interesse, unite ad una poeticità che la rende un caso unico nel genere poliziesco.
Ha una sorella gemella, pittrice, nome d’arte Jo Vargas.
Nella quarta di copertina di “L’uomo dei cerchi azzurri”, il primo poliziesco con protagonista Jean-Baptiste Adamberg, è riportata una sua dichiarazione: “il poliziesco è una specie di favola, ironica o tragica o cerebrale”. Mi pare non si potesse dir meglio, per le sue storie.
Ora, dopo aver trovato quest’autrice di mio interesse, mi sto tuttavia ponendo domande. Forse proprio in seguito a quel mio primo respingimento.
Perché un nome d’arte maschile? Sono esistite scrittrici famose che hanno utilizzato nomi d’arte maschili: appartenevano tuttavia ad un’altra epoca; e i motivi della scelta erano ovvi; anche se, è un fatto, non le hanno protette a lungo: hanno dovuto farcela, e ce l’hanno infine fatta, senza infingimenti.
Mi interroga il fatto che oggi – il nome d’arte essendo divenuto, come dire, un vezzo, e in un tempo in cui l’utilità, se non la necessità, di uno pseudonimo maschile per una scrittrice non sussiste più – mai accada l’inverso. Mi sbaglio se dico che non si conoscono nomi d’arte femminili utilizzati da maschi della specie?
Pensate un po’ a quel brav’uomo di Gustave Flaubert: che cavolo diceva affermando “Madame Bovary c’est moi”? Falso! E sarebbe interessante dare uno sguardo a quanta fantasia maschile sul femminile vi sia nelle eroine dei romanzi che, scritti da uomini, hanno contribuito a trasmettere, formare, la falsa immagine culturalmente data che le donne hanno/hanno avuto – hanno ancora? – di sé.
Diciamo che resta solo una possibilità del tutto teorica per Elena Ferrante, nonostante l’inchiesta del Sole24Ore che ne avrebbe individuato l’identità (femminile) attraverso un’indagine, utilizzando la tecnica “segui i soldi”, coerente con la mission del giornale.
Il caso pare rimanga a tutt’oggi aperto. Dunque, almeno in teoria, Elena Ferrante potrebbe essere lo pseudonimo che copre un’identità maschile. E anche solo quel fragile “potrebbe” è, a suo modo, un buon segnale di cambiamento in atto.
Uno pseudonimo femminile utilizzato da un maschio sarebbe interessante se non altro per quell’implicito che individua le due scritture, la femminile e la maschile, come aventi una propria specificità; che le individua come diverse, e riconoscibili.
Non è qualcosa di teorizzato, almeno non credo ma, in qualche modo, tale assunzione esiste, quantomeno per la narrativa. È quel qualcosa per cui un romanzo che narri una storia di coppia, con protagonista femminile, se scritto da un uomo è un romanzo “realista”; se scritto da una donna è un romanzo “rosa”.
Me lo concedete? È qualcosa che davvero c’è: sicuramente nella mente dei lettori; con residui sostanziosi, temo, anche dentro la critica ufficiale.
Mi dico da sola che, sul nome “Fred”, faccio un caso dove non c’è; che si tratta, dopotutto, di un normale diminutivo; niente dunque che abbia a che fare con la scelta di uno pseudonimo al maschile.
Ma voi ve lo immaginate l’inverso? Un Enrico Maria sbrigativamente chiamato Mary? E che venga scelto tale diminutivo come pseudonimo?
Per una donna di nome Frédérique, il diminutivo Fred ci sta tutto: in famiglia, tra amici. Trovo tuttavia leggermente diverso assumerlo come nomignolo ufficiale.
Il cognome – Vargas – è invece il risultato di uno pseudonimo condiviso con la sorella gemella Joëlle (nome d’arte Jo Vargas), pittrice, che lo avrebbe scelto per sé dal nome, Maria Vargas, della protagonista del film “La contessa scalza”, grande successo di Ava Gardner e Humphrey Bogart del 1954.
Anche Jo, come diminutivo di Joëlle, ci sta (pure se echeggia una sorella March). Strana, tuttavia, la scelta del cognome: mi risulta difficile associare alla personalità e alla scrittura di Fred Vargas (di Joëlle non so) l’immagine femminile veicolata dal film (che non ho visto, di cui ho solo letto la trama su Wikipedia, ma mi pare basti!). E così pure associare l’immagine di una donna come Ava Gardner a una persona come Fred Vargas – Frédérique Audouin-Rouzeau. Meno che mai con un nome proprio maschile.
Curioso. Almeno per me. Intrigante.
Persona dagli interessi plurimi, socialmente e politicamente impegnata, Fred Vargas non scrive solo polizieschi. E ha pubblicato di recente anche un’opera di saggistica sui temi climatici che potrebbe essere interessante.
“L’umanità in pericolo. Facciamo qualcosa subito”, Einaudi 2020, traduzione di Margherita Botto.
Nel recente passato, ha avuto una forte eco la sua posizione sulle vicende giudiziarie dell’ex terrorista Cesare Battisti.
Fred Vargas, come altri intellettuali francesi, ha sempre sostenuto l’innocenza dell’uomo condannato come pluriomicida, e di conseguenza ha sempre pubblicamente espresso la sua adesione all’applicazione, per il caso Cesare Battisti, di quella che veniva chiamata la “dottrina Mitterrand”; che ha consentito a qualche centinaio di ex terroristi o presunti tali di sfuggire alla giustizia italiana.
Battisti peraltro, divenuto scrittore, si era sempre proclamato vittima di un errore giudiziario.
Appartenente al gruppo “Proletari armati per il comunismo”, era stato condannato in primo grado per banda armata. Evaso dal carcere nel 1981, e in seguito condannato in contumacia per quattro omicidi (come esecutore e come fiancheggiatore), è vissuto per quasi quarant’anni, in piena visibilità, da latitante, prima in Francia e poi in Brasile. È stato estradato e carcerato in Italia solo nel 2019.
Senonché, a seguito del suo rientro in carcere in Italia, Cesare Battisti ha ammesso le proprie responsabilità per tutti i fatti a lui ascritti.
Fred Vargas, anche dopo questa ammissione, ha mantenuto la propria posizione innocentista, a differenza ad esempio di Daniel Pennac che si è dichiarato desolato per aver firmato, al tempo, un appello in suo favore.
Va detto inoltre che, anche secondo la “dottrina Mitterrand”, Battisti avrebbe dovuto essere immediatamente estradato dalla Francia, in quanto condannato per fatti di sangue.
Mitterrand basava infatti la sua scelta (mai tradotta in un provvedimento formale, ma unicamente espressa pubblicamente) di non concedere l’estradizione ai condannati in Italia per reati “politici”, sulla volontà di favorire una pacificazione che chiudesse il periodo del terrorismo. E questa sua scelta doveva valere solo nei confronti di coloro che, avendo rinnegato il proprio passato e le azioni di un tempo, non si fossero macchiati di fatti di sangue.
Il “caso Battisti” non rientrava, dunque, nella fattispecie prevista dalla dottrina Mitterand in quanto l’uomo era stato condannato come pluriomicida. Con ogni evidenza, il rifiuto ad estradarlo è stato dunque dovuto non tanto alla “dottrina Mitterand” quanto ad un giudizio (implicito), espresso dalla Francia, di inaffidabilità del processo italiano, con conseguente respingimento della validità della sentenza.
Si trattava di una scelta impossibile da accettare da parte italiana, soprattutto in quanto compiuta da parte di uno Stato amico e alleato (qualsiasi cosa ciò significhi al di fuori di un contesto di belligeranza). Il comportamento francese (e in seguito brasiliano) è stato dunque, e a lungo, insultante.
Non lo so, mi chiedo: è possibile che il mio non riconoscimento (superato) della scrittura Fred Vargas, sia dovuto a questa sua posizione? Che conoscevo, prima di leggere i suoi “polar”.
Resta, e non riguarda unicamente Fred Vargas, una domanda “vera”:
Importa davvero? Chi sia, cosa pensi, cosa faccia, nel e del suo privato, un autore? Non dovrebbe essere giudicato unicamente per la propria opera?
Ancora: Sarebbe possibile farlo, in un’epoca in cui l‘incontro con i lettori, le presentazioni dei libri, le interviste e quant’altro, sono quasi obbligate? In un tempo in cui la “fisicità” della scrittrice/dello scrittore – di un/una artista in generale – vengono fortemente poste dal marketing? In un tempo in cui l’apparire sociale dello scrittore fan un tutt’uno con le pagine che scrive; con tutto ciò che ne deriva: vedi nel cinema.
Perché abbiamo quest’ansia di conoscere l’identità privata degli artisti, in generale? Che è cosa diversa dall’incontrarli per sentirli parlare della loro ultima opera, essendo tuttavia, diciamolo, quasi inevitabile che i due interessi, le due curiosità, si fondano.
Esistono da sempre le biografie (pure se, solitamente, ma non sempre, pubblicate a babbo morto); e sono decisamente interessanti le autobiografie: che vengono pubblicate, anch’esse, spesso, postume (o quasi): ma anche no. Biografie e autobiografie sono, tuttavia, o dovrebbero essere, altra cosa. Dovrebbero aver a che fare con la relazione esistente tra l’opera e la vita di un autore; dovrebbero aver dunque a che fare con la conoscenza dell’opera; non certo con l’ipotesi di legare il giudizio sull’opera al giudizio sulla vita. Come oggi accade.
Alla fine, ho chiacchierato per lasciare il tema solo accennato. Si tratta di un tema confuso; ma non secondario. Ma non posso evitare la domanda che mi riguarda.
Ritenendo che un’opera frutto di creatività quale un libro (o un brano musicale, una scultura, un quadro…un film) debbano essere valutate per il loro valore intrinseco e non possano divenire vittime di un giudizio morale sul loro autore, potrò accorgermi se io, nella società in cui vivo e dentro la cultura cui appartengo, che privilegia l’apparire, non sia influenzata da questo giudizio? Non potrebbe inquinare, fino a distorcerla, la mia accoglienza di un’opera?