Lo spalatore di nuvole

Fred Vargas, “Il morso della reclusa“, Einaudi 2010. Traduzione di Margherita Botto

Questa non è, in senso proprio, una recensione. Più che altro il racconto di un’esperienza di lettura. Un qualcosa un po’ così.

Capita che io mi sia ritrovata affascinata da un poliziesco di una conosciutissima autrice francese; un “polar”, come dicono in Francia (“poliziesco noir”), di Fred Vargas, e dal personaggio del Commissario Jean-Baptiste Adamsberg.

Fred Vargas, 2009. Da: Wikipedia

La cosa è strana: si tratta infatti di un’autrice molto nota, molto apprezzata dagli amanti del genere, che io non ho mai amato. In passato ho fatto persino qualche sforzo per accoglierla, ma no. Io e le sue storie non abbiamo – dovrei dire non avevamo – legato.

Dopo aver letto (è passato molto tempo, ne ho solo un vago ricordo) il primo romanzo della serie Commissario Adamsberg, “L’uomo dai cerchi azzurri”, indicatomi da un’amica del cui giudizio ho molta stima; e dopo averlo trovato, ben costruito e ben scritto ma decisamente noioso, avevo deciso di dare una seconda chance a Fred Vargas e leggere un suo altro romanzo, di un’altra serie, “Chi è morto alzi la mano”.

Bene, anche questo nuovo romanzo, come il primo, non mi ha catturata: idea originale, ben scritto ma, per me, noioso. Anche in questo caso, ho vaghi ricordi di questa lettura, di una storia che, dopo un iniziale interesse, non mi ha condotto a prendere in considerazione l’avvio di una relazione stabile con l’autrice.

Ne ero in qualche modo dispiaciuta: ma come, un’autrice Einaudi (lo so, i tempi stanno cambiando ma insomma, occorrerà pur dar credito anche alla casa editrice e, con Einaudi, è corretto aver una buona aspettativa); un’autrice che ha un largo consenso, e anche da lettori che stimo. E dunque?

Ma perché mai dovrebbe essere un problema – mi rispondevo – i gusti sono gusti. Dopotutto, sono una che regge benissimo il fatto di non apprezzare Dickens (dai, va! Facciamo un’eccezione per il Davide Copperfield, ma basta là!) e il rifuggire come la peste Madame Bovary senza fare una piega. Il fatto che un romanzo sia un buon romanzo, o sia addirittura un capolavoro, non mi porta a sentire alcun obbligo nei suoi confronti, oltre, beninteso, al dovuto riconoscimento. In aggiunta, ritengo che l’età rafforzi i diritti del lettore; e sarebbe bene dire a Pennac di aggiungere una postilla al suo decalogo, magari al punto 6 – diritto al bovarismo. Potrebbe starci bene anche la variante al negativo: tutti piangono su questa storia strappalacrime? Empatizzano con il personaggio fino all’identificazione? Bene, io no!

Non so dunque dire come io mi sia decisa a scegliere la lettura di un libro di Fred Vargas. Forse per disperazione da noia serale. Credo sia esperienza comune incappare in una di quelle notti insonni in cui, di umore pesantemente malmostoso, giriamo a vuoto spulciando gli scaffali (non ho niente da leggere!), o cercando in rete un e-book buono per l’addormentamento; e mentre quella piccola possibilità di lasciarsi andare al sonno si allontana sempre più, ritrovarci travolti dall’incontentabilità, sempre più affamati di pagine inesistenti, e dovendo dimostrare a noi stessi che il mondo  fa schifo, che non ci sono più i buoni gialli sonniferi di una volta, che… Accade a tutti, vero? Ditemi di sì, vi prego!

La stanchezza, unita all’essere capitata a caso, in rete, su Fred Vargas, devono aver fatto il resto. Dunque: Click!

La notte se ne è andata insonne – ma quanto è bello farsi trattenere da una buona storia inattesa, quando tutto è silenzio e nessuno, né corporeo né telefonico, interromperà la tua immersione dentro pagine accattivanti! In compagnia di un personaggio formidabile!

L’indomani, mi sarei fatta compatire per la mia tragica notte insonne e avrei dormicchiato perfettamente a mio agio sul divano, leggendo a spezzoni – click! – tra un sonnellino e l’altro, una nuova storia del Commissario Adamberg.

Infatti: “La cavalcata dei morti”: Wow!! Attacco di bovarismo inconsulto alla massima potenza!

Sono seguiti a tamburo battente: “Sotto i venti di Nettuno”, Nei boschi eterni” e “Un luogo incerto”: e l’attacco è passato. Totalmente.

Sto leggendo la quarta storia e, per la verità, sono tentata dall’abbandono: gli interrogativi della vita sono infiniti e saprei, nel caso, sopravvivere senza conoscere l’ultimo assassino, senonché…

C’è un imponderabile, che sicuramente mi era sfuggito al primo (e anche al secondo, immagino, nonostante il cambio di personaggi) libro dell’autrice. Dopotutto, ritenevo di aver tra le mani un noir e invece: ho tra le mani qualcos’altro. Non molto chiaro, per la verità. Ma qualcos’altro.

Vero, il troppo stroppia; e si tratta di storie caratterizzate decisamente dal “troppo”: dei personaggi e degli accadimenti. E il mio coinvolgimento ha prodotto, di suo, il dovuto effetto indigestione. E tuttavia: si tratta di omicidi “favolosi”. Che devastano, rendendo del tutto piacevolmente improbabili ma del tutto desiderabili, luoghi, fatti e personaggi.

Epoca attuale. Luogo: Parigi. Che è, o dovrebbe essere, per quanto caratterizzata, una grande metropoli con tutta la sua complessità. E invece no.

In queste storie, Parigi è un’ombra vaga, è un’idea, un sogno; niente più di un incerto Lungosenna lungo il quale un Commissario stropicciato, incapace di pensare se non in movimento, passeggia; e dai, aggiungiamoci un bistrot, dove si beve pastis, ci si nutre con qualche piatto particolare. Ma niente di più. Il lettore potrà costruirsi la Parigi che desidera, avendo a disposizione una tela, un fondale di scena in cui Parigi si intravede, appena accennata, nella trama.

Ci sta, dentro una favola noir dove, per l’appunto, si trama, si ordisce, e niente deve essere illuminato; solo accarezzato dalle dita della mente che ne scopriranno al tatto la composizione.

Sul proscenio, la voce narrante ci mostrerà Jean-Baptiste Adamberg, l’improbabile Commissario responsabile della, chiamiamola Squadra Omicidi, del XIII Arrondissement di Parigi.

Sia come sia, il nostro commissario, come ogni buon cavaliere di ventura, finirà sempre per andare ad impicciarsi di casi che lo condurranno nella più profonda provincia francese, a individuare omicidi plurimi, seriali, raccapriccianti, dai contorni favolosi, che nessuno aveva sospettato, interferendo nel lavoro di colleghi imbufaliti e riluttanti.

Adamsberg indica evidenze misteriose che paiono tali a lui solo (e al lettore, ovviamente: la seduzione, e la sospensione dell’incredulità vengono rapidamente prescritte e sono all’opera dalla prima pagina).

Ha un vice; una spalla – Adrien Danglard – doverosamente antitetica, un’enciclopedia ambulante, che sa tutto, dispensandolo da ogni sforzo logico o mnemonico che comunque non farebbe per lui.

Adamsberg pone domande fuori contesto, apparentemente prive di nessi logici; del tipo:

“…Come si chiama quel modo di parlare che consiste nel rompere le palle a un altro rivolgendogli un sacco di domande per fargli sputare quello che non sa ma sa?

Maieutica (…)”

Notoriamente un metodo non violento che, come tutti i metodi non violenti, fa saltare la mosca al naso alle proprie vittime, talvolta fino alle estreme conseguenze.

Il Nostro si ritrova immerso ad ogni passo in antiche leggende; svela l’esistenza di assassini seriali che durano, mai scoperti, da decenni.

Di più: ciò accade ovunque casualmente vada: in Canada; o a Londra – quant’è bello rompere le scatole a Scotland Yard! – per poi finire in un paesino della Transilvania, o della Serbia, o giù di lì (mai stata, io, un genio della geografia, e non saprei dire se l’autrice lo sia, immagino di sì) ad incrociare la storia di Dracula: che ne dite di una catena di omicidi, una lotta tra famiglie di vampiri e vittime degli stessi, che perdura da circa trecento anni?

In aggiunta, il Nostro che, lo ammetto, ha qualcosa di adorabile, pare dotato di ottime capacità di osservazione che tuttavia si uniscono a: memoria inesistente, indolenza cronica, incapacità totale di condividere con altri il proprio pensiero; oltre a: tendenza a divagare e, inevitabilmente, abbigliamento e cura di sé segnati a loro volta da estrema precarietà.

Non che queste sue caratteristiche di personalità costituiscano per lui un cruccio. Mai più. L’autostima regge perfettamente.

“(…) lui però non aveva sprecato il suo tempo: imparare la parola <loxoscelismo>[i], risolvere l’angoscia del tenente Froyssy, sapere perché San Rocco era accompagnato da un cane, nutrire i merli e ricordarsi un sogno.”

È uno “spalatore di nuvole”, come verrà definito da un collega. Ed è incomprensibilmente adorato (ma anche no, violentementeno) dagli uomini e dalle donne della sua squadra che uno sconosciuto Genio della Pubblica Amministrazione pare aver scelto ad hoc per collaborare con lui (o salvarlo da se stesso, mentre risolve casi che estrae dal cilindro che non porta).

Parigi, dicevo.  Nelle storie si insiste molto sul suo non essere parigino ma nativo di un paesino dei Pirenei, e mai raggiunto, a ben vedere, dalla cultura urbana della grande città.

Tra i personaggi che arredano il commissariato, ognuno protagonista, compaiono pure un gatto dalle abitudini molto particolari che abita, e dorme, sulla fotocopiatrice degli uffici; compaiono cani, altri gatti; e pure un paio di figli, che (proprio come in una favola) il Nostro scopre di aver distrattamente disperso qua e là ma che accoglie (vale per cani gatti o figli), senza difficoltà alcuna.

Niente di trucido, in queste storie, nonostante omicidi brutali, fiumi di sangue, cavalcate di morti, corpi a brandelli, tombe di vampiri e quant’altro. Proprio come nelle favole, la paura non fa paura, non davvero.

Anche i cattivi non lo sono del tutto: come ognuno di noi, hanno le proprie ragioni, le proprie storie.  

Nel romanzo “La cavalcata dei morti” è ripresa una leggenda. Il libro che ne dà conto è introvabile: “La leggenda del cacciatore furioso e della caccia selvaggia”, di Karl Meisen, Edizioni dell’Orso 2001.

Ora dovrò sentire la casa editrice. Lo devo avere.

Dopodiché – basta Fred Vargas, per un po’. Sono rientrata in me stessa. Almeno spero.


[i] Da: Wikipedia. “Il loxoscelismo è una condizione patologica prodotta dal morso dei ragni eremita (genere Loxosceles), come il Loxosceles reclusa. È l’unica causa provata di necrosi aracnogenica negli esseri umani.