Alla ricerca del momón

Giuliano Scabia, “Nane Oca”, Einaudi 2012

Sto leggendo: un libro che perdura, non per corposità, duecento pagine in tutto. Perché è fatto di tante storie, induce a tante soste, alla riletture delle stesse righe, dentro un andirivieni tra le pagine, per un riascolto, e ancora e ancora, delle frasi.

È una storia, sono tante storie, è fatto così.

“È notte. La casa di Guido Puliero ha le finestre illuminate, (…) Splende la luna, piena, viva, sopra i Ronchi Palù – sopra la selva del Pavano Antico.

Stanno arrivando gli amici, i soliti.

Arriveranno il Parroco  Don Ettore, detto Parco; Il signor Bet, fumatore di pipa; Il farmacista di Casalserugo che ha composto una poesia; Suor Gabriella, che sbotta in un’invettiva per il freddo;  Il maestro Baroni mangiatore di minestre, con la barba ancora da fare, e i gemelli Calvadore vestiti da ciclisti.

Storie cominciano a incrociarsi, a balenare qua e là.

Saranno con noi, di chiacchiera in chiacchiera, di storia in storia, anche bestie (viste, supposte): “esistono più bestie di quelle che si vedono” dice il Puliero… il Lupocane, il Pescebaùco, la Vacca Mora, la Lumaca Imèga, lo Scarbonasso serpente e tante altre.

Il farmacista, a richiesta, legge la sua poesia, un benvenuto all’incontro:

Strepitosa luna, tu osservi,

di notte, le orme dei cervi,

i fiumi che ti rispecchiano

e le città che invecchiano:

ma vedi anche i nuovi bambini, i vitelli,

i maiali, gli uccelli, lepri e faine:

e i nostri occhi che ti fissano.

Vedi anche la casa dove siamo

Con le sue civette, geki e lucertole:

e vedi Guido che scrive

l’opera immortale

che racconta le avventure

di un personaggio strano

Nane Oca del Pavàno.

Oh, nel frattempo è arrivato anche Oreste, col paracadute; e il dottore. Per ultimi, Nani Majo e Agostino.

La Maria portò il caffè. Tutti ne presero una tazza.

Ma tutto l’interesse, tra storie che si accennano e si accavallano, è per il libro che Guido sta scrivendo: “Le avventure di Giovanni Oca alla ricerca del momón.

Non poteva essere che così, perché “ i racconti sono momón….E quanti ne mangiano e bevono gli uomini ogni giorno e ogni notte, sia fandonie sia vere storie!…”

E ora, buona lettura, partendo dall’avvertenza dell’autore in esergo al libro:

“Benvenuto, lettore, a questa soglia. Se, una volta entrato, percorrerai il mio racconto e lui riuscirà a portarti sino alla fine, ti prego di non rivelare i tre segreti di Nane Oca: chi è l’assassino di Bianca Birón, qual è la lingua del Magico Mondo, cos’è il vero momón.”

Qualcosa sull’autore:

Giuliano Scabia, 2018

Nato a Padova nel 1935, Giuliano Scabia ci ha lasciati il 21 maggio di quest’anno. È stata una grande perdita – tale anche per chi non ha mai sentito il suo nome: a poco a poco, l’assenza di quella voce impoverisce il mondo  di ognuno, che vive del mondo degli altri, che vivono dei molti mondi di altri ancora – e come sempre non so dire ma ci sono luci che raggiungono ognuno di noi, per avere le quali non occorre che il nostro dito, proprio il nostro, abbia azionato l’interruttore.

Viviamo tutti di luci che non sappiamo fino al giorno in cui si spengono, quando neppure comprendiamo da dove arrivi quel buio che si infittisce.

Sei mesi fa non ho saputo, voluto, potuto scrivere nulla di Giuliano Scabia: non ne ero, come non ne sono, capace. E allora oggi, perché?

Perché sono giorni che (non per me in particolare, ma anche si, dato che a questo mondo ci sto anch’io) si fanno sempre più cupi; e giorni in cui qualche giovane voce fa vedere una luce, là in fondo; perché ho tra le mani “Nane Oca” e così sono andata a ricercare tra i vecchi libri; a recuperare i suoi “Canti del guardare lontano” (Einaudi, 2012)

Perché, nel mentre frequento, oggi, quei lontani anni ‘70, è stato per me inevitabile andare a sbattere su Marco Cavallo: e per chi non lo avesse mai sentito nominare, si tratta di legno e cartapesta, altezza quattro metri, di un bell’azzurro brillante. Dal portamento regale.

Cosa si sarebbe potuto trovare di meglio, in quel luogo chiamato manicomio, là in quel di Trieste, se non un cavallo di Troia che, invece di portare il nemico dentro le mura della nostra casa-sicurezza-carcere, potesse portar fuori i nostri sogni?

Cosa meglio di uno che, infine, avrebbe portato fuori NOI: in quel 1973, con tutti i suoi creatori, Franco Basaglia, Peppe Dall’Acqua e, lui, certo, Giuliano Scabia.

Giuliano Scabia è uno che ha ascoltato con attenzione, con il sorriso, ogni nostra vecchia storia; e che ce l’ha restituita tutta nuova e vitale, per noi, per oggi, per ogni giorno. È uno che ha vissuto ogni nostro luogo, o che avrebbe potuto farlo e tanto basta; cantando, recitando, inventando, disegnando, scrivendo di tutti i mondi che gli venivano offerti, per restituirceli carichi di legami e di vite ritrovate, mai state, ricreate; con parole riscoperte con cui giocare, radicate nei luoghi. Di allegria. Di poesia. Di verità. Facendo di ogni cosa “momón”.

Divenuto fiorentino, nella seconda parte della sua vita, ha sempre mantenuto un riferimento alle proprie radici padovane, ma trovando ovunque per l’Italia storie in cui radicarsi, da risvegliare, con linguaggi da riscoprire, con parole da inventare, legami da costruire.

Giuliano Scabia era uno che faceva teatro. E lo insegnava. Un teatro di strada, per ovunque; che ti restava dentro, uno spettacolo da cui uscivi nuovo, a ritrovare i colori dei luoghi e i suoni delle parole e tutto ciò che ti legava a suoni parole e gente, antica, tua e mai saputa, o in via di essere scordata per sempre.

Così mi hanno detto. Non ho mai visto Giuliano Scabia: e mentre so bene di aver perduto tantissimo, so anche che no; che lui ha, e mi ha, dato di che ritrovare, volendo, i suoi sentieri ogni giorno. Da me. Per me.

Nella sua storia di poeta ci sono state le esperienze formali, da curriculum, certo:  le esperienze del Gruppo ’63; la cattedra di drammaturgia al DAMS.

Ci sono stati soprattutto i molti, studenti, e non solo, che lo hanno ascoltato, che hanno potuto lavorare con lui, a iniziare dai “matti” di Trieste 1973: e quel giorno, quando, dopo aver dato vita a Marco Cavallo, si era pronti per farlo uscire, ci si era accorti che quel sogno, fatto realtà, era stato troppo grande: un cavallo-sogno che non poteva passare sotto un portone troppo basso per consentirgli di uscire.

Disperazione! Di un momento.

Marco Cavallo ha sfondato le mura. Dopotutto, bastava abbatterla, sfondarla, quella porta; e le mura con lei.

Marco Cavallo, con la pancia piena dei sogni di chi lo aveva costruito, è uscito, per la strada, per le vie della città.

Poeta, autore teatrale, di testi per musiche, regista, attore, Giuliano Scabia è stato Una Voce. Le sue sono parole-voce, musica, gesto, movimento. Scritte, cantate, parlate, inventate, recuperate, rimestate e impastate di lingua madre padovana – come detto, sicuramente poco note: di quello speciale “poco” che si espande, fuori da qualunque confine e andando per sentieri e rivoli, dentro percorsi carsici, si rafforza. Finché il rigagnolo si fa fiume – solo per un momento, per disperdersi nuovamente in tanti ruscelli, per percorrere ancora nuovi sentieri.

E poi, così, tanto per non porci limiti assurdi, dedichiamoci alle vecchie storie che si raccontavano nelle stalle (dove la sera ci si radunava al caldo animale odoroso delle bestie, a “far filò” – così si diceva nelle nostre campagne venete, almeno dalle mie parti, vero Maestro Zanzotto?)

Conoscete la storia del Gorilla Quadrumano?

Ha percorso l’Appennino, quella storia, portata di paese in paese dal professor Scabia e dai suoi studenti e da chi ci stava, immagino.

È stato, Giuliano Scabia, uno di quegli esseri umani capaci di fare il miracolo che, come sappiamo, si fa con la parola, e con l’agire condiviso; e che sta nei suoi versi, nelle storie che ha scritto, che aprono al lettore percorsi per sognare, senza essere mai solo.

Ecco: non è quello che volevo dire ma non so dirlo meglio.

Ha scritto molto; e Einaudi ci ha conservato la sua produzione, di cui è, credo, attesa, una summa, qualcosa del genere.

La sua scrittura (non poteva esser diversamente) va per leggende popolari, per varianti e saghe: percorre sentieri (diceva lui), viottoli, facendo apparire, tornare, riemergere, paesaggi – da lui creati? Anche sì e anche no. Appartenenti alle profondità che ognuno di noi possiede dentro di sé, nel fondo della memoria che lega ogni singola vita a territori, a genti, a storie; anche insapute, persino non credute.

Ed ecco “Nane oca”, (1992); cui faranno seguito “Le foreste sorelle, nuove straordinarie avventure di Nane Oca”, (2005), “Nane oca rivelato” (2009) e, a conclusione, “Il lato oscuro di Nane Oca” (2019).

C’è la sua poesia, primogenita della sua scrittura: gli ormai introvabili, temo (ma possiamo sperare in una riedizione?) “Padrone e servo” e “Il poeta albero”. Mentre “Opere della notte”, che contiene incisioni dell’autore, è ancora reperibile.  

Ho tra le mani “Canti del guardare lontano”, che sono dialoghi, testi teatrali, arricchiti da disegni – ancora storie, e sempre poesia. Parlata, come dev’essere; dialoghi da ascoltare, fermando il tempo; insieme ad altri, per ascoltare in compagnia, altrimenti che ascoltare è?

Da leggere da soli, sapendo che, quando si legge, non si è soli mai; e i vivi e i morti e gli sconosciuti e i dimenticati (credevi tu) saranno intorno a te, a fare cerchio.

Inevitabile: ti ritroverai a leggere ad alta voce, camminando e gesticolando, per quel qualcuno che sei tu, e sei tanti.

Poi, la sera, da solo, tornerai a Nane Oca – al calduccio, sotto le coperte, andi-rivenendo tra le pagine e le storie – per scoprire, o riassaggiare, mhmm… momón.