Dare un nome alle cose.

I libri, i loro lettori, chi scrive cosa. Le parole. Il loro uso. La loro funzione: dare forma, e sostanza, al mondo della specie umana.

Dare un nome ai viventi e alle cose è stato il compito di Adamo. Il primo passo.

La nostra specie è esistita da quando un suo membro – mitizzato come “il primo uomo” (o donna, più probabilmente) – ha iniziato a dare un nome alle cose. Poi si sono trovati nomi per le azioni; per le sensazioni; per le emozioni; per i sentimenti. Infine, il tutto è stato fornito di struttura.

È nato il linguaggio, e con esso l’esistenza del mondo umano; di una memoria trasmissibile, che consente al mutamento di fondarsi sulla permanenza.

La specie umana coltiva, nel suo radicarsi attraverso la memoria, una natura culturale. Fa ciò attraverso la parola; per mezzo di una/tante narrazioni, da trasmettere di generazione in generazione. Fa ciò attraverso la memoria del mito fondativo in cui la parola nasce; e necessita che ognuno di noi se ne prenda cura; per far esistere noi e il (nostro) mondo.

Gianrico Carofiglio ha presentato in questi giorni una nuova edizione – una edizione integrata? – di un suo bellissimo libro – “La manomissione delle parole”, Rizzoli 2010 ; che forse non aveva avuto il meritato riscontro da parte dei lettori? O ne aveva avuto al punto da renderne utile una riedizione aggiornata?

Questa riproposizione di “La manomissione delle parole” viene ad hoc, essendo stato quel libro, se non profetico, sicuramente un memento, una riflessione in tempo utile, di qualcosa che stava già avvenendo, e già allora neppure da poco, nella nostra lingua.

Forse, non solo nella nostra lingua, guardando a cosa accade nel nostro mondo, che potremmo chiamare “occidentale” – anche se la definizione è, oggi, impropria; impropriamente usata, quantomeno, per dire: cosa? “Ricco” (sicuramente), “dalla civiltà avanzata” (e già qui si aprono crepe-burroni tra significante e significato), “democratico”? Interessante quesito.

La quarta di copertina presentava così la prima versione:

“Le parole servono a comunicare e raccontare storie. Ma anche a produrre trasformazioni e cambiare la realtà. Quando se ne fa un uso sciatto o se ne manipolano deliberatamente i significati, l’effetto è il logoramento e la perdita di senso. Se questo accade, è necessario sottoporre le parole a una manutenzione attenta, ripristinare la loro forza originaria. Gianrico Carofiglio riflette sulle lingue del potere e della sopraffazione, e si dedica al recupero di cinque parole chiave del lessico civile: vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta. Il rigore dell’indagine si combina con il gusto anarchico degli sconfinamenti e degli accostamenti inattesi: Aristotele e don Milani, Cicerone e Primo Levi, Dante e Bob Marley, fino alla Costituzione.” 

Ora, La NUOVA manomissione delle parole”, Feltrinelli 2021, inserisce, in chiusura, solo una piccola aggiunta:

“Salvare le parole dalla loro manomissione, oggi, significa essere cittadini liberi.”

È lo stesso libro? immagino di sì. In ogni caso mi ha portato a riaprire il vecchio libro; a rileggerlo oggi, a dieci anni di distanza. E a pormi domande diverse. In attesa di esplorarne la nuova edizione.

Nella prima metà di questo libro, in cinque fondamentali capitoli, l’autore si sofferma sul tema della “Parola”, sul suo essere ciò che dà forma al mondo umano; ciò che consente il pensiero, strettamente legato al numero e alla qualità delle parole di cui disponiamo; si sofferma sulla funzione performativa delle parole, per cui siamo in grado di “Fare cose con le parole[i] in senso proprio, oltre che utilizzarle nei termini della loro verità/falsità/corrispondenza all’oggetto per esprimere concetti, per narrare fatti.

Ci farà incontrare gli usi che possiamo fare delle parole, il loro dar luogo a una “Lingua del dubbio” o ad una “Lingua del potere”: “impermeabile”, quest’ultima, (citazione di uno scritto di Toni Morrison) “all’interrogazione”.  

Questa prima parte del libro è (molto più di) una premessa che fonda il significato di ciò che seguirà: una riflessione su alcune, importanti, “parole” con le quali Carofiglio ci propone di “giocare”; smontandole, ricostruendole, restituendo loro un senso diverso, perduto, ritrovato.

Dopodiché, come ogni libro che si rispetti, anche questo è un libro che porta altrove; a seguire il sentiero che ognuno di noi sta percorrendo.

Ed eccomi tornare alla narrazione di Sergio Zavoli,[ii] dove ci dice di un incontro, e ci offre una sua riflessione: 

Un giovane terrorista pentito, durante un’intervista, ha toccato il problema del linguaggio. Ha raccontato in un modo straziante come a questi ragazzi fosse venuta meno la parola per dire agli altri chi erano, per dirsi l’un l’altro che cosa volevano. Ecco, come può una rivoluzione essere priva di parole?[iii]

Davvero! Come era stato possibile? Era stato, quello, un tempo di libri, di letture. E tuttavia: com’è che, a un certo momento, in certi anfratti del tempo, le parole sembrano non tanto mutare il loro significato ma, in senso proprio, perderlo? E divenire slogan? Come non servissero a un dialogo? A un ragionare insieme?

È necessario cercare domande.

Ci sono momenti in cui le parole non possono significare per il semplice fatto di non servire più ad essere ascoltate, ma solo ripetute? Ci sono contingenze in cui le <parole per dirlo> non possono esistere perché non possiedono una referenza? Che si è perduta? Che, in un tempo di rapidi cambiamenti, non è stata trasmessa da una cultura che si va disfacendo in anomia?

Questo fenomeno va sotto il nome di ipocognizione, ci ricorda Carofiglio, nell’introduzione a questo libro, quando riporta gli studi dell’antropologo Bob Levy, negli anni ’50,  sull’alto numero di suicidi che si avevano, al tempo, tra la popolazione di Tahiti:

“(…) Levy scoprì che i tahitiani avevano le parole per indicare il dolore fisico ma non quello psichico. Non possedevano il concetto di dolore spirituale e pertanto, quando lo provavano, non erano in grado di identificarlo. La conseguenza di questa incapacità, nei casi di sofferenze intense, era spesso il drammatico cortocircuito che portava al suicidio.”

Oggi, confesso, l’ipotesi di lavoro di Bob Levy non mi convince molto. Non più. Mi chiedo, certo, se ho titolo per confutare, sia pure solo in forma di domanda, le conclusioni di un illustre studioso: e tuttavia, come evitare il dubbio quando questo si presenta? Occorre, per quanto ci è possibile, esplorarlo.

Robert Levy, 2007 – Wikipedia

Com’è stato possibile per Levy pensare che, in un qualsiasi gruppo umano, manchi l’esperienza, tanto per dire, della perdita, del lutto; della solitudine, della rabbia; e manchino le parole – una favola, un mito – per esprimere tutto ciò?

C’è forse, in questa conclusione, più di un filino, inevitabile, di quell’eurocentrismo da cui ogni antropologo deve costantemente a guardarsi. C’è quel fatto, quasi inevitabile, per il quale noi consideriamo “culture” (sottintendendo <primitive>) quelle dei popoli <altri da noi> (dunque: quantomeno <diversamente umani>) mentre definiamo la nostra cultura connotandola come <semplice> civiltà, che pretende per sé il carattere di una impossibile (e mortifera) <oggettività> – corrispondenza <ai fatti>.

L’esempio dell’etnopsichiatria è chiarificatore: è <la psichiatria degli altri>, i cui dispositivi <non scientifici> valgono solo per gli appartenenti alla cultura specifica; non assumendo che la nostra è, a sua volta, e necessariamente, <una> psichiatria – etnica tanto quanto.

Abbiamo avuto (e abbiamo) gruppi di giovani, e non piccoli, che sicuramente hanno avuto accesso, e in modo privilegiato, al linguaggio. Come è accaduto, come accade che questi giovani, altamente acculturati, siano stati, siano, travolti dalla mancanza di “parole per dirlo”? Che abbiano dovuto/debbano tradurre questa impossibilità di parola in aggressività – in un cortocircuito che porta alla violenza – verso se stessi/verso l’altro: ed ecco il terrorismo, ecco le manifestazioni violente; dove la funzione del linguaggio – il nostro mondo – pare nullificarsi.

Michael Ende, “La Storia Infinita”

Mi ritrovo a fronteggiare altri richiami.

Com’è potuto avvenire – come avviene – che  si finisca vittime di un <Nulla che avanza>. Di una Storia infinita[iv] in cui neppure quel substrato di fiaba, mito, racconto tramandato che sta nella natura umana, e dunque in ogni cultura, compresa la nostra, si opponga alla caduta della parola; che dovrebbe consentire il non cadere nella violenza – verso se stessi/verso gli altri? Caduta che, la storia insegna, non sappiamo evitare; che ha segnato e segna ogni tempo.

Forse, in qualche luogo, in qualche buco del tempo, ci si dimentica di dovere alle giovani generazione una narrazione che è la natura stessa della nostra specie? Dentro, per l’appunto una Storia-Tragedia Infinita che si ripete, nei tempi, nei luoghi?

Possiamo poggiare o meno la nostra identità, la nostra permanenza nel mutamento, in un dispositivo religioso, in una Fede. Dovrebbe rassicurarci anche il fatto che i Miti fondativi si assomigliano tutti, e non può essere un caso. Ogni gruppo culturale è in grado di ascoltare, leggere, rinarrare il proprio mito; mentre, per questa via, le diverse culture accomunano la specie rendendo ognuno di noi umani riconoscibile per l’altro.

Una suggestione, una domanda, mi viene dal post di Nonna Pitilla, qui:

Che richiama per tutti noi una vecchia eterna canzone e le sue parole: The sound of silence:

…………

E nella luce vivida vidi

Diecimila persone, forse più

Persone che conversavano senza parlare

Persone che udivano senza ascoltare

Persone che scrivevano canti che quelle voci

Non avrebbero mai condiviso

E nessuno osava disturbare

Il frastuono del silenzio.

“Idioti” dissi, “Non sapete che

Il silenzio cresce come un cancro

Udite le parole che potrei insegnarvi

Prendete le mie braccia con le quali potrei

Raggiungervi.

Ma le mie parole come silenti gocce di pioggia

Caddero ed echeggiarono nei pozzi del silenzio

E le persone chine in preghiera ……”

Dov’è la connessione – il dialogo – con me, con altri – il suono di voci, in ciò che diciamo, in ciò che scriviamo?

Non nel silenzio, non in parole d’ordine, sprofondati davanti a un dio del momento che ci ammutolisce nell’obbedienza.

Credo che la risposta sia l’ascolto. Non è la parola che viene persa, o non c’è. È l’ascolto. Una ammalata prescrizione a non ascoltare.

E tuttavia sì: è sempre la Parola a finire vittima di una ammalata prescrizione a non pronunciarla, che si esprime in un tabù che prescrive di non udirla.

Varrà, per sfuggire al silenzio, dialogare attraverso i libri?


[i] John L Austin

[ii] Sergio Zavoli, “La notte della Repubblica” : https://lalibraiavirtuale.com/2021/11/03/i-libri-e-i-giorni/

[iii] Da: “La notte della Repubblica, cap. IX, “La testa dell’Idra, Le nuove Br.” Intervista al terrorista, definito l’ideologo delle Br, Enrico Fenzi, il solo, reo confesso e non pentito non dissociato, che sconta l’ergastolo. Un intermezzo-considerazione  dell’autore, Sergio Zavoli.

[iv] Michael Ende, “La Storia infinita”: https://lalibraiavirtuale.com/2018/05/23/ma-questa-e-unaltra-storia-e-dovra-essere-raccontata-unaltra-volta/