Al Tour della vita, tutti gregari

Mi aggiungo, e non sarò l’ultima a consigliare, per una buona serata di lettura, un romanzo di Otello Marcacci di cui, per ora, ho letto, con piacere:

Gobbi come i Pirenei”, Neo edizioni 2011 (il suo primo romanzo) e

Nottambuli a cena”, Gruppo editoriale Les Flaneurs, 2022 (qui la recensione di Pia Bertoli) con l’aggiunta di una interessante intervista all’autore (qui)

Pia Bertoli, nel suo blog “Il mestiere di leggere”, aveva peraltro già proposto, alcuni mesi fa, un altro romanzo  di Otello Marcacci, “Tempi supplementari”, Edizioni Ensemble 2020 (qui) in precedenza recensito anche da Benny, di “Il verboleggere” (qui): lasciandomi, per ambedue, con l’urgenza di leggerli.  

Mi aggiungo ai diversi apprezzamenti, dicevo, scegliendo di proporre il primo libro di questo autore: il primo che ho letto, anche (e ora riletto, gustandolo ulteriormente) dicendo subito che ne ho apprezzato la scrittura scoppiettante e una prima persona della narrazione che non lascia agio al lettore di interromperne un vero e proprio ascolto.

Dopodiché, in attesa di leggere “Tempi supplementari”, e avendo letto “Nottambuli a cena”, rafforzo l’invito a non perdere, per l’appunto, questo suo primo libro che consentirà,  oltre ad essere di suo decisamente godibile, di veder svolgersi, in sequenza, con gli altri romanzi, un interessante percorso di scrittura – e di vita, perché tale è la pagina scritta.

Con personaggi diversi e dentro storie di invenzione, la voce di Otello Marcacci narra, di storia in storia, utilizzando una prima persona cui dà una voce che evolve – mentre la pagina si fa meno febbrile, l’introspezione ottiene il tempo che le spetta: ed ecco che il lettore è richiamato alla rilettura.

Vero: due libri sono, per così dire, solo due indizi; occorrerà leggere almeno il terzo per formare una prova, ma rischio ugualmente la scommessa (un po’ imbrogliando, va detto, avendo a disposizione le recensioni citate di “Tempi supplementari” che non ho ancora letto.

Gobbi come i Pirenei”, dunque: la storia.

Eugenio Bollini è  un  ciclista professionista. Diciamolo meglio, con le sue parole:

“Un gregario, ecco cosa sono. Un buon gregario. Uno che si muove nella penombra e che si uccide di fatica, anche se sa che non vincerà mai. Perché arriva, alla fine, il momento in cui devi lasciare il posto al tuo capitano.”

Che è un modo faticoso di guadagnarsi la vita, per uno che ha lasciato gli studi a pochi passi da una laurea; ma un modo sicuramente dignitoso, per uno che ha potuto, voluto e infine, sì, forse dovuto, scegliere il ciclismo.

Significa aver amato uno sport, aver impegnato fatica e speranze; aver fatto infine, con ulteriore e maggiore fatica, conti adulti e realistici con la propria scelta; significa aver accettato i propri limiti, oltre alle  proprie capacità – che, per fare il gregario professionista non sono poca cosa.

Significa averne tratto di che vivere e mantenere una famiglia, mentre il piacere di sudare in sella per far vincere sempre un altro si dev’essere alquanto ridotto: fatica doppia, tripla, dunque. Diciamolo. Dicendo tuttavia anche un’altra verità: senza l’aiuto dei gregari, e di una squadra, non esisterebbe il grande campione.

Non so voi ma io, che non sono proprio un’intenditrice, con il ciclismo ci ho trascorso, da bambina, qualche piccolo ma significativo pezzetto di vita – per aver dovuto annoiarmi a morte “sullo stradone”, (dove venivo trascinata, con mamma, da un padre che riteneva, così, di regalarci una gita), “scalpitando sui miei sandali”, per dirla alla Paolo Conte: e non per l’ansia-gioia di veder passare Bartali (nel caso, a casa mia, sarebbe stato Coppi) ma proprio per reggere la noia e contenere la voglia di far la pipì.

Ho dunque amato/odiato, e non posso rinnegare, il ciclismo eroico (o immaginato tale) del tempo che fu.

Eugenio Bollini ha trovato, dunque, un modo per (fingere di) far la pace con i propri limiti, con le proprie sconfitte, prendendo per buona una fissazione: la favola del Quoziente Intellettivo, da utilizzare quale metro di valutazione di sé e degli altri; accogliendo il proprio Q. I. 130, più che buono per consentire l’autostima necessaria a vivere ma contenuto quanto basta per dover fare qualche conto con la realtà – che peraltro non esenta neppure i geni.

Eugenio Bollini non pare tuttavia capace (come ognuno di noi) di rinunciare davvero, pur narrando, con grande autoironia, di una moglie che lo ha lasciato, di un figlio, Lapo, cui la ex vorrebbe, almeno un po’, far dimenticare il padre a favore di un nuovo partner ritenuto socialmente meglio posizionato, di un lavoro che gli chiede tanta fatica senza prospettive; e che sta per chiudere, diciamo pure in perdita.

Si consola, da buon toscano, con il rinforzo di qualche simpatica espressione robusta, finalizzata a far sì che chi lo ascolta rida insieme a lui e dunque, almeno per questo, solidarizzi: lo sappiamo tutti che la vita non è facile, per nessuno, e può colpire duro.

C’è poi sempre, a disposizione di ognuno, una storia di vita – come dire alcune premesse – a giustificazione, almeno parziale, dei propri veri o supposti fallimenti.

C’è stata una madre, che…

“…oltre ad essere francamente bruttina, è sempre stata un essere odioso e antipatico. Spilungona e allampanata, risultava del tutto asessuata: una frigidona in carriera (…). Un essere androgino e diffidente che, una volta incastrato il pollo, con metodo calibrato gli ricordava costantemente i suoi doveri di pater familias.”

C’è tuttavia, in positivo, Mary, la sorella che:

“si è sposata giovanissima con uno di miei primi compagni di squadra, Marino Brusteccon, veneto di Conegliano – sinistra Piave, come ama sempre dire (…) uno che non si dà mai arie, nemmeno quando scoreggia”. Una gran brava persona, in effetti, con un grande cuore; un buon marito e un ottimo amico.

C’è soprattutto il rinforzo di una forte fede anarchica, ereditata da un padre molto amato che: come era potuto accadere, a uno così, di sposare la moglie che si ritrovava (a detta del figlio, che poi, anche lui…)?

  • E comunque, caro mio, ricordati una cosa fondamentale.
  • Che cosa mi devo ricordare, daddy?”
  • Il peccato originale è un’offesa alla creazione, uno sfregio all’innocenza e un insulto alla vita”
  • Ok, papà, ne parlerò con Don Backy”

Resta tuttavia, nodo centrale, da assolvere una promessa fatta a quel padre, che non c’è più, e con cui dunque non potrà più ricontrattare: la promessa, a riparazione della propria vera o supposta inconcludenza, di portare a termine – non vincere, solo portare a termine – un Tour de France, impresa fino ad allora fallita e ora quasi impossibile.

Chi, quale squadra lo vorrà ancora? Anche i suoi rapporti sociali e di lavoro non erano stati proprio gestiti al meglio, il carattere è carattere, le idealità sono idealità.

Tale impegno va tuttavia assolto, per chiudere una carriera con dignità: non lo richiede solo la promessa al padre, bensì la propria, molto più imperativa, autostima.

E c’è, in aggiunta, la fede anarchica; c’è l’Internazionale, colonna sonora di una vita – versione francese, naturalmente: siamo o non siamo al Tour de France? – con quel refrain che sostiene ogni momento duro, ogni speranza, al di là di ogni ragione, al di là del fatto che vi abbia a che fare o meno.

“In piedi, dannati della terra!

Color che son schiacciati nei mattatoi umani!

In piedi, in piedi, forzati della miseria!

Nel frattempo accadono cose. Tra i tanti guai ci sarà qualcosa di buono: tipo un nuovo incontro. C’è, sempre, la bella sfida della vita, con sé e con gli altri.

Una favola bella, infine. Che fa bene al cuore per quella verità che ogni favola contiene nella forma di un dover essere cui non si può rinunciare, senza alcun bisogno di venir creduta nella sua fattualità.

È la lotta finale

affrontiamola uniti e domani

L’internazionale sarà il genere umano!

Bene – sta nel contratto con il lettore il fatto che questo romanzo finisca in gloria; e Otello Marcacci conclude bene il tutto, nessun filo del racconto disperso.

Che poi il tutto sia sorretto da una fantasia, dentro un fuori luogo senza tempo dove si sarà potuto correre un Tour de France di sogno – grandi prove e grandi sofferenze dell’eroe ovviamente comprese – non impedisce all’autore di portare a compimento il racconto, rientrando dentro il tempo reale della storia; e facendolo bene.

Dopotutto, non è così difficile, per un Q.I. 130 quale lui si definisce: basterà trovare una donna Q.I. 160.

Forse non nella realtà dei giorni: ma fa bene pensarlo. E leggerlo, con il sottofondo dell’Internazionale quale colonna sonora.

Davvero: questo romanzo merita almeno due letture.