Questo non è un “Avviso ai naviganti”. Avrebbe dovuto esserlo. Un mese fa. La mia libreria virtuale ha chiuso i battenti, senza esserselo proposto, senza averlo saputo prevedere.
È semplicemente accaduto.
Sarà il momento giusto per una riapertura? Il desiderio c’è tutto. Con la consapevolezza di dover, forse, cambiare qualcosa, o molto – perché molto è cambiato là fuori. Libri e lettura, libri e scrittura? I libri, dopotutto, riflettono, restituiscono il mondo. E pare, oggi, difficile tracciare i confini del piccolo mondo di ognuno, di un grande mondo condiviso.
Pervade un sentimento di errore. Di smarrimento.
È, questa, una strana estate: di cambiamenti, di presagi che, come sempre, si manifestano polisemici, e chiedono di venir letti in modo non univoco – a meno che questa apertura di significato non sia solo una bella illusione.
Una bella estate, per me che godo della compagnia di nipoti, anche se non, a lungo, di tutti; chi va e chi viene.
È una brutta, difficile estate, dal caldo eccessivo, come è accaduto nel corso di molte altre estati e tuttavia segnata da una diversa calura – sappiamo tutti come questa sia altra cosa; come sia altra cosa questa siccità.
Il sentimento di star vivendo un avvitamento che ci porta alla catastrofe è ormai tale da chiederci la fatica di fingere che ci possa essere un domani per il mondo che conosciamo, così come lo conosciamo – e che fatica questa finzione! Le spalle sopportano un peso sconosciuto, nell’attesa di un domani, per i nostri figli, a misura del nostro oggi, illuso, che vorrebbe tanto continuare a illudersi, dell’Occidente.
Il domani dei figli: il solo che ci appartenga. Un domani che attendiamo – un domani che verrà – senza che venga riconosciuto fattivamente il bisogno di cambiare qualcosa nelle nostre vite; di cambiare molte cose; di cambiare tutto?
Nella mia casa, il condizionatore è acceso. Certo, con qualche riserva; meno di quanto vorrei; pur sempre acceso.
Lo sappiamo bene, mentre compiamo riti (qualsivoglia: magici, religiosi, anche laici, certo, para-pseudo-scientifici), per assicurare a noi stessi, là dove ognuno sta, individualmente, per sé, una “vita eterna”: desiderio-speranza-illusione, in una funzione antipanico che non so capire.
È per me orribile il solo pensiero di una vita “eterna”, individuale, del tipo “fine pena mai”; e che “paradiso” sarà mai un luogo fermo, dove nulla vi sia da progettare, da far crescere; e infine da salutare, andandosene perché là, nella vita vera, abbiamo lanciato lei, e lui, e loro; figli, libri, realizzazioni, relazioni; e occorrerà pur dire un “ora basta così: ho fatto il mio, ne sono felice”.
Davvero qualcuno, tra coloro che abitano nel tempo, potrebbe davvero amare una propria storia senza fine, dove nulla possa più accadere, senza una prima un dopo un poi un.. e allora?
Andate, dunque, vorrei dire. Andate, figli – miei, altrui, di nessuno, appartenenti, ora, solo a voi stessi – la strada è vostra: trasmettetela.
Nel mentre, si sta, godendo del tramonto che avanza, della cosa compiuta – bene, meno bene, persino male, mai del tutto.
Madre natura è saggia, si occupa della salvaguardia della specie, non del singolo esemplare che, a un bel momento, ne dovrebbe avere pure abbastanza, o no? avendo compiuto ciò che era suo; o anche no, magari non proprio del tutto ma anche sì, comunque sia andata.
Brutta difficile estate di montagne che si sgretolano, di ghiacciai perduti, animali assetati, terra riarsa. Da ora in poi? Così?
Nel mentre, gli umani fanno le guerre. Una più una più una. Fabbricano armi, e ogni gruppo ha le proprie ragioni – piccole, grandi, vere, reali, fasulle, fittizie, da vivere e condurre entro il quadro di un piccolo oggi pensato eterno.
Potrebbe essere tardi per le soluzioni. O quantomeno, per soluzioni – colpevoli tutti – senza sconti, dal prezzo non impensabile e insostenibile.
Brutta difficile estate guardando al mio ombelico, alle piccole cose mie che per me, come per ognuno, sono tutto se solo mi distraggo – e mi distraggo; ed è pure giusto: non si scappa, non si dovrebbe, né si può, scappare dalla propria vita.
Restano – e la cosa mi mette a disagio, confesso, ma restano, e forse è bene così – le pagine da leggere; le pagine da scrivere. Perché poi? Perché sì: non c’è fuga che tenga.
Restano i libri; e la pagina bianca di fronte a me. Con un bisogno che, non so dire, fatico a mettere a fuoco, di cambiamento. Non so: è consono ciò che leggo? il libro leggero, da diporto, scritto pure bene, se possibile divertente; il libro che chiede attenzione, che illumina cose, pone domande, propone risposte. Il libro che chiede fatica, bella e impegnativa. Come ci fosse un domani; ecco, si tratta di questo, immagino. Un libro che entri in risonanza con la vita; che è ciò che fanno i libri.
Non l’avevo previsto; è accaduto. Da settimane, non sono riuscita neppure ad avvicinarmi a una pagina bianca; non a una tastiera, neppure a un giochino – a un mahjong passatempo, per dire.
Brutta estate senza scrittura, dunque; finora; per buoni motivi, tipo giocare con i miei bambini; dare un’obbligata attenzione alla mia salute che ha imperiosamente chiesto, e ottenuto, ascolto.
Ora che tutto è risolto confesso una voglia di convalescenza verace: genere ‘800 inglese. Del genere signore che scendono a sud e dimenticano di dover ritornare alle loro nebbie e alla pioggerellina del tempo che fu; che al sole trovano nuovi amori; cose così. Conversazioni, qualche incontro interessante; passeggiate lente, armate di parasole per non rovinare l’incarnato pallido di rigore. Qualche buon libro. Scrivere un diario. Lettere, a destinatari segreti. A nessuno.
Per trascorrere un’estate così, da sognare, rimanermene a Treviso va più che bene.
Scrittura. Non so; come ognuno di noi, frequento scritture diverse. Ci sono queste pagine, che sono, a modo loro, dialogo: e dunque soprattutto importanti.
Lettura. Quella sempre – che, per dire, se leggo non fumo: e questo, mi dicono, è cosa buona. Ed è pure una parziale bugia: vale per il giallaccio di turno, da divano; interrotto da un sonnecchiare leggero che costringe a ritornare su pagine distrattamente lette.
Non vale per il libro da poltrona; per il libro da appuntare. Per il libro che chiede la rilettura di passaggi che suscitano domande, esigenza di memorizzare (sempre più difficile); non vale per il libro che suscita entusiasmi e respingimenti; che chiede note a margine: libro da sigaretta.
Due interessanti libri in lettura; uno, appena chiuso; uno in attesa impaziente.
Jean-Yves Mollier, “Storia dei librai e della libreria dall’antichità ai giorni nostri”, ed. e/o 2022.
Dalla quarta di copertina:
“Fin dalla più remota antichità, che fosse scritto su tavoletta d’argilla, papiro, pergamena o carta, il libro è servito a trasmettere informazioni, idee, racconti, poesie, preghiere, leggi, contabilità e tutto ciò che di scritto potesse essere letto. Ma il cammino che porta il libro sotto gli occhi del lettore è lungo e complesso e presuppone la collaborazione di una quantità di artigiani che concorrono alla realizzazione dell’oggetto finito. A condurlo per mano lungo questo percorso è il libraio, cioè il commerciante che fin dall’antichità organizza uno stuolo di scribi, copisti, fabbricanti di pergamena, miniaturisti e rilegatori per ottenere il prodotto finito che toccherà a lui vendere. Per vari secoli, nonostante l’avvento della carta e la grande invenzione della stampa, il suo ruolo non cambierà e il libraio, ma forse sarebbe meglio chiamarlo “uomo del libro”, assolverà di volta in volta le funzioni di editore, stampatore, distributore o negoziante. È solo nell’Ottocento che le professioni cominciano a diversificarsi e che la figura del libraio si distingue nettamente da quella dell’editore, del distributore e dello stampatore. (…)” In questo lavoro minuzioso e pieno di rivelazioni Jean-Yves Mollier ripercorre cinquemila anni di storia dell’attività libraria passando dalle tavolette sumere scritte in carattere cuneiforme alla minacciosa comparsa dei giganti del web, che occupandosi in maniera capillare e senz’anima del commercio del libro mettono in serio pericolo l’esistenza di un professionista dedito da sempre a veicolare cultura.”
L’edizione italiana è completata da un breve saggio di Elisa Marazzi – storica, ricercatrice specializzata in discipline bibliografiche – dal titolo “Breve storia dei librai in Italia (1400 – 2000)”.
C’è poi, in attesa, Robert Darnton, “Il grande massacro dei gatti”, Adelphi 1988
L’autore (New York, 1939), giornalista, infine professore di storia emerito all’Università di Princeton, specializzato nella storia della Francia prerivoluzionaria e, in particolare, nella storia del libro; dal 2007 direttore della Harvard University Library, ha scritto questo libro, che vergognosamente scopro ora, che stasera inizierò a leggere, praticamente certa che me ne innamorerò – poi si vedrà e, spero, ne racconterò qualcosa.

Per ora, solo un estratto dalla lunga e dettagliata quarta di copertina:
“(…) si tratta..di mostrare non solo cosa pensava la gente, ma come pensava – come interpretava il mondo, gli dava un senso e gli conferiva un significato emotivo. (…)
Darnton ha scelto la via di illuminare la sensibilità e i modi di vita del Settecento francese, in ambienti disparati, attraverso sei <storie> (…) che qui balzano sulla pagina come altrettanti racconti. Si passa dal <grande massacro dei gatti>, feroce vicenda che si svolge nell’ambiente artigiano di Parigi, alle indagini di un ispettore di Polizia che sorveglia le attività di scrittori considerati pericolosi per il regime; dalle strategie di Diderot e D’Alembert nel corso dell’immenso lavoro per l’Encyclopédie alle singolari reazioni dei lettori allo scrittore che scosse radicalmente la sensibilità dell’epoca: Rousseau. E il saggio iniziale illumina il truculento folklore contadino che fa da sfondo alle grandi fiabe di Perrault e Madame d’Aulnoy. (…)” – e, tra parentesi, occorrerà pure dire qualcosa di M.me Marie-Catherine d’Aulnoy, l’inventrice dei “Racconti delle fate” ma, soprattutto, una donna dalla vita più avventurosa di un romanzo d’avventura.
Ora vado, dunque, a leggere. La vita conosciuta, dopotutto, continua.