Ridere del patriarcato? Difficile 

Marchesa Colombi, “Un matrimonio in provincia”, Einaudi 2009

«È difficile immaginare una gioventù più monotona, più squallida, più destituita d’ogni gioia della mia. Ripensandoci, dopo tanti e tanti anni, risento ancora l’immensa uggia di quella calma morta (…)».

Già si preannuncia un riso amaro, indotto da quell’<uggia> che esclude la tragedia e pur tuttavia non esclude la fatica di vivere, nell’insignificanza. Ci si prepara dunque, sia pure un po’ a denti stretti, anche a ridere. Con un po’ di cattiveria. A ghignare, se vogliamo.

“Un matrimonio in provincia” è stato pubblicato nel 1885 dall’editore milanese Giuseppe Galli, a firma di Maria Antonietta Torriani, scrittrice, militante femminista, giornalista – la prima giornalista del neonato Corriere della Sera – sotto lo pseudonimo di “Marchesa Colombi” (identità volutamente ironica, tratta dai personaggi di una commedia satirica). Ed è stato, al tempo suo, un romanzo breve di successo; il suo capolavoro; e in seguito, un titolo perduto fino a quando Natalia Ginzburg, nel 1973, avendolo da tempo proposto, ne ha finalmente ottenuto la pubblicazione, impreziosita da una sua prefazione (che già da sola vale l’acquisto del libro), per la Collana Centopagine* di Einaudi, diretta da Italo Calvino.

Maria Antonietta Torriani (Marchesa Colombi)

A distanza di altri trentasei anni, nel 2009, Einaudi (onore al merito) lo ha nuovamente riproposto. Non sono seguite, mi pare, altre edizioni e dunque, apparentemente, il merito della Casa Editrice, e del libro, non sembra sia stato, quantomeno non del tutto, riconosciuto, nel nostro tempo di presentazioni da parte dell’autore, di lanci pubblicitari e premi per più o meno nuovi autori sulla via del best seller.

Il libro, tuttavia, resiste; si trova: non è fuori catalogo. E peraltro: come non far aggio su di una Prefazione di Natalia Ginzburg; una Prefazione particolare, in cui narra il suo incontro, bambina (settenne!) con questo libro, propostole dalla madre con l’avvertenza che probabilmente non le sarebbe piaciuto dato che non vi erano bambini nella storia. Una Prefazione che, in effetti, è anche uno spoiler; e un racconto a sé: troppo bello; e tale da indirizzare chi legge, oggi, a godere ancor più il libro. 

Scrive la Ginzburg, ricordando:

“Non sapevo mai che libri leggere. E così lessi questo. Lessi con grande noia le prime pagine, dove c’era quello che più odiavo nei libri, e cioè una <descrizione>. Questa descrizione mi sembrò molto lunga. Era una minuziosa descrizione di suppellettili e stanze. (…) Rimasi però affascinata dal personaggio della matrigna, che appare in scena avvolta in una mantella viola e in atto di masticare <anice stellato>. La sperai cattiva. Ero imbevuta di storie dove le matrigne erano cattive e le figliastre buone e bellissime. (…) Inoltre mi accorsi che tutto quello che qui leggevo e che chiamavo noioso si stampava fortemente nella mia memoria (…).”

Marchesa Colombi: uno pseudonimo che l’autrice ha adottato e mantenuto, a un certo punto della sua vita di scrittura. 

Chi è stata costei? Maria Antonietta Torriani (1840 – 1920), nascosta sotto uno pseudonimo dal carattere ironico, è stata, come detto, la prima giornalista del Corriere della sera, una femminista impegnata e un’autrice prolifica. Una scrittrice, e non solo, sicuramente da conoscere meglio.

Leggendo “Un matrimonio in provincia” mi ritrovo a scoprire, in una storia di ordinaria borghesia, che c’è stata, tra le nostre scrittrici, un’antesignana della mia adorata Ivy Compton-Burnett (1884 – 1969). Lo è stata per la scrittura, aspra, essenziale, efficace; per la disperazione mascherata, ammantata di ironia quando non dal sarcasmo, a far sì che il lettore, sentendosi pure a disagio, non possa evitare di ridere.

Versione italiana, certo, dove tuttavia i fondamentali delle vite femminili e dei progetti socialmente perseguibili, sono gli stessi: uguale l’ipocrisia; uguali le ritualità; assenti, o non richiesti, contenuti valoriali sostituiti, pur in assenza (apparente) di un qualsivoglia giudizio, da una scarna fattualità per figure – un padre, una matrigna, due ragazze da marito, qualche altra ragazza di contorno, quattro giovanotti di famiglie benestanti, un non più giovanotto ma insomma, non proprio vecchio notaio che cerca moglie – impegnate nella danza sociale che regolava e contrattava le frequentazioni, le possibilità di accordi matrimoniali e, certo, anche la data di scadenza entro la quale le ragazze erano considerate commerciabili per il matrimonio.

Eugenio Torelli Viollier

Il tutto rappresentato attraverso una scrittura addirittura brusca, senza concessione alcuna all’autocompiacimento, senza infiorettature sentimentali per vite che oggi considereremmo non tragiche ma sicuramente fallite. Implicitamente, senza che sia il caso (ma dovrebbe esserlo) di farne un dramma.

È chiara, per il lettore, la componente autobiografica della storia? Non del tutto, in effetti; forse, neppure al momento della sua pubblicazione, a meno di non conoscere la storia di vita di Maria Antonietta Torrani che, al tempo, doveva essere ormai coperta dal tempo trascorso e dalla figura pubblica della “Marchesa Colombi”: femminista della prima ora, donna libera, militante impegnata in conferenze, in giro per l’Italia, sui temi dei diritti delle donne; già sulla via dello zitellaggio; divenuta infine moglie di Eugenio Torelli Viollier, il giornalista fondatore del Corriere della sera, che la lasciò/ che lei lasciò. 

Aveva già quarantacinque anni, Maria Antonietta Torriani, quando diede alle stampe questo libro.

L’autrice, e il suo lettore, non empatizzeranno particolarmente con i suoi personaggi, senza, peraltro, malevolenza alcuna; diciamo con una fragile simpatia, ventata dal compatimento, per la protagonista. 

La storia:

Siamo nella seconda metà dell’800. A Novara vive tale Pietro Dellera, vedovo, con le due figlie, Caterina, la maggiore, detta Titina e Gaudenzia, detta Denza. In aggiunta, la famiglia è completata da una zia, sorella del padre, anziana, nubile e dalla salute acciaccata: il quadro perfetto, al tempo, del dramma-zitellaggio.

Il vedovo Pietro si risposa e la matrigna, Marianna, si dimostra, per le figliastre, una donna buona, pur se dal carattere forte e direttivo; una donna che si occupa del futuro (da intendersi matrimoniale) delle due ragazze, educandole alla conduzione di una casa e alla più stretta parsimonia.

Il padre, amante della letteratura classica, aveva ritenuto di poter provvedere in proprio all’istruzione delle figlie, facendosene carico a suo modo: mai andate a scuola, le ragazze sono tenute a lunghe passeggiate salutiste con il padre e mancano, causa ristrettezze economiche, di una adeguata frequentazione sociale.

Hanno tuttavia delle cugine, che frequentano la buona società e in compagnia delle quali avviene loro di avvicinarsi, talvolta, a un evento mondano; mentre rimane loro il palcoscenico costituito dalla Messa domenicale che, tra le sue funzioni, costituisce una buona occasione per adocchiare ed essere adocchiate dai giovanotti.

Denza è osservata con interesse da un giovanotto, Onorato Mazzucchetti, per la verità grosso e grasso ma, a quanto pare, innamorato e ricco di famiglia. E la fanciulla si scopre profondamente innamorata a sua volta. E sogna.

Ora, i matrimoni, nella buona società, sono accordi che debbono tener conto delle sostanze familiari; e Denza è una ragazza di buona famiglia ma priva di dote. Questo fa sì che sia chiaro per tutti, ma non per lei, che il giovanotto grasso e ricco, con il quale arriva a scambiare poche parole riassumibili in una scambievole, ma da parte di lui equivoca, dichiarazione d’amore, mai la chiederà in moglie.

Denza attende, troppo, fino al giorno in cui verrà a sapere che il suo amato sposerà un’altra. 

Che dire. L’età per il matrimonio, che per una fanciulla del tempo non è di lunga durata, avanza, e sarà necessario esplorare con cura il mercato matrimoniale possibile, guidato dalla tutto sommato affettuosa matrigna, in una casa e in una famiglia che non consentono ricevimenti, vita mondana, la creazione di opportunità sociali; dove l’economia domestica prevede le scorte di patate e castagne nella sala da pranzo.

Natalia Ginzburg

La casa: la descrizione minuziosa del mobilio  – e nella prefazione Natalia Ginzburg segnala  bene la pregnanza del tutto – costituisce sicuramente uno dei “personaggi” della storia; in cui non ci sono, non proprio, i cattivi.

Nulla, in effetti, potrebbe autorizzare, agli occhi del lettore, una interpretazione tragica di vite del tutto normalizzate dall’ovvietà sociale.  Nello sguardo dell’autrice, tuttavia, se non c’è giudizio alcuno, nei confronti di nessuno, neppure ci sono assoluzioni. 

La Marchesa Colombi ci dice che nel suo mondo le cose stavano così; e la sua narrazione è uno specchio in cui chi legge vede il proprio mondo con occhi nuovi, non avendo mai avuto contezza – al tempo, dentro una vita immersa nell’humus culturale rappresentato – di problematicità alcuna.

Il lettore si ritroverà, dunque, a riflettere su se stesso; oppure dovrà ridere. E quasi sicuramente (anche) riderà. Allora come oggi?

Questo è un libro che, uscito nel 1885, ha rivelato la propria validità ancora nel 1973 e conferma il proprio valore oggi, nel secondo millennio, in un tempo in cui la vita delle donne è, se vogliamo, tutt’altra, e (solo in apparenza) non confrontabile – perché di questo parla il libro, della vita delle donne e dell’istituto familiare patriarcale su di loro fondato che, tutto sommato, ancora oggi pare si insista a voler considerare semplicemente “naturale”.

Ebbene sì, si tratta di un libro che ci mostra – e sorridiamo pure della povera protagonista; e accettiamo pure il fatto che, alla fine, tutto si assesterà come la regola sociale prevede – un patriarcato “civile”, da rappresentare come benevolo – come fosse possibile!

Dopotutto, cosa avrebbe potuto ottenere dalla vita una fanciulla, pure belloccia e di buona famiglia ma priva di dote, se non un qualche sentimento di spregio (e per altro verso il riconoscimento di un dolore) per poveri sentimenti e poveri fatti, assurti, nella fantasticheria femminile, a progetti di vita. Per fortuna la buona matrigna ne è stata ben consapevole.

Si  ride amaro. Ma si ride: che cos’altro si potrebbe fare?

__________________________________________________

  • Fonte Wikipedia: «Centopagine» è stata una collana editoriale diretta da Italo Calvino e pubblicata da Einaudi dal settembre 1971 al marzo 1985, all’inizio con uscite regolari mensili e poi con qualche intervallo sporadico (…), 

Il pieghevole di presentazione della collana, scritto da Calvino stesso e incluso nei primi quattro titoli del 1971[1], spiega il criterio di scelta dei singoli titoli:

«”Centopagine” è una nuova collezione Einaudi di grandi narratori d’ogni tempo e d’ogni paese, presentati non nelle loro opere monumentali, non nei romanzi di vasto impianto, ma in testi che appartengono a un genere non meno illustre e nient’affatto minore: il “romanzo breve” o il “racconto lungo” che si basa sulla lunghezza, da non prendersi alla lettera, di 100 pagine, atte a facilitare la lettura nelle “giornate meno distese della nostra vita quotidiana”, e soprattutto la “sostanza”, ossia nel segno di aperture per ulteriori esplorazioni di grandi autori attraverso opere di minore impegno, curiosità di qualche inedito. […] L’impostazione della collana non vuole essere affatto preziosa, di trouvailles curiose o di indicazioni di gusto, ma al contrario vuole rispondere a un fondamentale bisogno di “materie prime”».

Solo 17 dei 77 titoli di «Centopagine» furono recuperati da altre collane Einaudi, confermando il carattere autonomo che Calvino impostò per la collezione. Ci furono traduzioni di opere mai pubblicate in Italia.

Il periodo che prevale è quello dell’Ottocento, con nuove note introduttive in gran parte scritte appositamente da critici e scrittori italiani, e precisamente: 46 titoli sono della seconda metà dell’Ottocento, 14 della prima metà, 7 del Novecento, 6 del Settecento, 2 del Cinquecento e 2 del Seicento (…).