Pensieri in libertà. La TV mostra, riferisce, di manifestazioni che proseguono, in Iran – a Saqqez, città d’origine di Masha Amini. E’ il 16 novembre, il Masha Day globale. Si manifesta a Teheran, in tutto il Kurdistan. Si manifesta nel mondo, anche in Italia: nella mia quotidianità di vita, nella mia Treviso, non me ne sono quasi accorta, per la verità, ma va bene; io vivo appartata, e tanto basta.
In Iran, gli arresti di massa, la repressione violenta, continuano: la protesta non si ferma. I negozi chiudono a sostegno. Le giovani donne e i giovani uomini a Teheran non demordono.
Proviamo vicinanza, angoscia, e una dura percezione di impotenza. Proviamo grande ammirazione per quelle giovani, per quei giovani, per quei cittadini e cittadine che lottano.
Nel frattempo, le notizie dall’Afghanistan arretrano. Si riaccendono. Le donne lottano. Inutilmente.
Nel frattempo – leggo oggi – un articolo di “Il Post” titola:
“In Belgio sono state bruciate delle scuole per protestare contro l’educazione sessuale.”
E prosegue: “(…) in almeno sei casi – vale a dire che i casi sono un numero maggiore, se capisco bene – è stato stabilito un legame con la campagna lanciata a inizio settembre da movimenti di estrema destra e gruppi religiosi integralisti, musulmani e cattolici, contro il Corso di Educazione alla Vita Relazionale Affettiva e Sessuale (Evras) voluto dalla ministra francofona dell’Istruzione Caroline Désir (…)”
Il programma EVRAS è attivo dal 2012: si tratta di quattro ore di lezione per gli e le studenti dai dodici ai sedici anni.
Il pensiero vaga, è multiplo, si disperde tra riflessioni e ricordi, errori, delusioni e importanti conquiste – sembrava, allora, di avere il futuro (del mondo!) tra le mani. Il pensiero vaga. Incongruamente (forse) chiede: E’ corretto, per una donna, dirsi “femminista”?
In anni ormai molto lontani rifiutavo con tutte le mie forze di venir così definita. Ci tenevo a ribadire il fatto che difendevo i miei diritti di cittadina, i miei diritti di persona, che venivano prevaricati da una società maschilista. Niente di più, niente di meno.
Ho sempre trovato corretto definirmi semplicemente una <donna>, una <persona>, che vive(va) in una società (e peraltro in un mondo) maschilista in cui le persone-donne patiscono uno status ascritto di minorità, culturalmente, e pure giuridicamente, assegnata.
Non io, dunque, dovevo essere definita “femminista”: la società in cui vivevo doveva venir classificata “maschilista”.
A parte nelle evenienze in cui ai maschi della specie era necessario soprassedere, almeno in parte, alla ascritta minorità femminile: vedi in tempo di guerra. Per poi ordinare: tutte a casa!
“Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza – ribadiva Lidia Menapace – Abbiamo rischiato come gli uomini ma allora in tanti ci guardavano male. E il giorno della Liberazione ci chiesero di non sfilare”.*
Pensateci un po’: accettando la denotazione <femminista>, in qualche modo finiamo per denotare la controparte culturale (se così vogliamo chiamarla), come la norma, come la regola.
Avreste trovato normale, a fronte delle lotte delle persone di colore negli U.S.A., definire, che so, Malcolm X, un “nerista”?
Chiaro che non è così: sono coloro che discriminano l’una o l’altra tra le appartenenze, multiple, che ognuno di noi vive, a dover essere connotati come: suprematisti bianchi, antisemiti, razzisti, omofobi, sessuofobi e, prendendoli dentro tutti e tutte, maschilisti.
Non può tuttavia sfuggire l’organicità, la sistematicità, con cui nei millenni, in ogni parte del mondo, in ogni cultura, è stata letteralmente normata la cultura maschilista.
Da sempre, ovunque, in ogni tempo della Storia e in ogni cultura, la condizione di asservimento di cui sono vittime le donne è un elemento culturale generalizzato, più o meno (ma per lo più) violento, più o meno mascherato (ma anche no), universalmente e da sempre, condiviso; in buona parte tollerato, carico di giustificazioni fasulle; nella maggior parte del mondo prescritto.
Si tratta di una discriminazione che coede a favore del maschile la classe padronale e la classe dei lavoratori.
La discriminazione del femminile ha veduto e vede l’alleanza, che parrebbe impensabile, dei maschi detentori di un potere, grande o piccolo che sia, ai diversi livelli: mariti, compagni, fratelli, capifamiglia, capipopolo in tutte le modalità che tali ruoli comportano; classe padronale e classe lavoratrice – ovviamente sostenuti, tanto o poco, da una nutrita partecipazione di supporter femminili. Con, al di sopra di ogni gruppo di potere, i rappresentanti dei diversi credo religiosi.
È qualcosa di dovuto, in qualche modo. Dopotutto, nelle società patriarcali, è assegnato alle donne il compito di allevare i figli e trasmettere loro la cultura dei padri, ed è analogamente femminile la funzione di “vestale” in affiancamento alla classe sacerdotale a tutela del dio, padre o meno che sia, comunque maschio.
A fronte delle battaglie “femministe”, ecco dunque tutti i detentori di un potere far fronte comune in difesa dei propri privilegi, affermati come “naturali”: bianchi e neri, democratici e fascisti, padroni e classe operaia.
La parte maschile del genere umano ha sempre espresso, su questo punto, una singolare compattezza, solo settorialmente superata, oggi, nelle società occidentali; sempre a rischio di ricadute, dimostrando con ciò che la discriminazione del genere femminile costituisce “la madre” di tutte le discriminazioni, senza cui ogni altra discriminazione settoriale cadrebbe.
(Oh, solo per anticipare negazioni da parte dei nostri maschi per bene: qualcuno ha mai visto una lotta maschile a tutela delle inferiori, e pure, a casa nostra, formalmente illegali, retribuzioni femminili nel mondo del lavoro?)
Da secoli, in molte parti del mondo, donne (perché non è possibile dire <le> donne) lottano per liberarsi dal giogo maschilista; e hanno vinto grandi battaglie nell’acquisizione dei propri diritti: che rimangono tuttavia sempre a rischio di venir nuovamente revocati, in quanto parziali e settoriali, localizzati, a fronte di un maschilismo universale.
Nessun diritto femminile, civile o sociale, pare mai acquisito stabilmente. L’infezione si ripresenta; la malattia recidiva.
Sono estese le realtà – statuali, sociali – in cui la vita delle donne è tuttora una condizione di pesante schiavitù, che pure gli schiavi maschi sostengono, in alleanza con un potere che opprime pure loro.
Dovessimo fare un calcolo, considerata la densità demografica delle diverse popolazioni – quella europea equivale a meno del 10% della popolazione del pianeta; tutto il mondo occidentale ha iniziato un processo di decrescita demografica – è facile vedere come la maggior parte delle donne vivano, ancor oggi, in condizione di pesante schiavitù. Le nostre “isole felici” (nel confronto, non altro) occidentali sono poca cosa: la madre di tutte le discriminazioni gode ancora di buona salute.
In Italia, la contraccezione, il diritto della donna a vivere una sessualità libera e avere solo figli voluti, è lasciata all’opzione, senza possibilità di un’informazione adeguata, della singola ragazza/donna. Idem per i maschi. L’educazione sessuale nelle nostre scuole è fenomeno d’eccezione, con l’alibi di lasciare ai genitori (e alla chiesa cattolica) la facoltà di decidere su di un tema ancora ferocemente ancorato alla titolarità della morale – vale a dire, ancora una volta, della <legge del padre>.
Nel mondo è a tutt’oggi diffusamente negata, alle donne, l’istruzione, mentre nei paesi dove il livello di scolarizzazione femminile supera ormai quello maschile, ci pensa il mondo del lavoro, ci pensa la classe intellettuale, ancora prescritta al maschile per quanto riguarda “i piani alti” del sistema, a ristabilire l’ordine patriarcale dovuto.
È lunga millenni la storia che ha portato all’organizzazione socio-economica globale che conosciamo e che, con rare ininfluenti eccezioni, coinvolge oggi l’intero pianeta.
Tutto è partito – si dice – con la conquista della stanzialità, con la nascita dell’agricoltura, fondata sulla proprietà della terra (in capo a un privato o in capo a una nazione, fa lo stesso; diciamola <fondata sui confini>) e sulla correlata <legge del padre>: che viene esercitata a partire dal singolo <uomo-proprietario> fino al singolo <popolo-nazione>, abitante un territorio su cui esercitare un diritto di proprietà privata/ una sovranità.
Ora, i sistemi socio-economici, e le politiche che li sostengono (e davvero non esiste, su questo, differenza sostanziale tra regimi) non credono di potersi reggere senza il “possesso” della donna e dei figli, per poterne assegnare la titolarità a <un> maschio che ne sia il padre certo / a <una> cittadinanza che ne certifichi l’appartenenza.
La discriminazione delle donne è un universale, iscritto millenariamente nella cultura, che fonda e <giustifica>, a ricaduta, ogni altra discriminazione settoriale, quale mezzo per la sopravvivenza del patriarcato.
Ed ecco: a fondamento del tutto, a reggere il sistema dei confini che incarnano la proprietà privata – di un campo, del territorio di una tribù, di uno Stato – c’è la trasmissione della stessa di padre in figlio, di re in re, di eletto dal popolo in eletto dal popolo.
Si tratta, sempre, ancora, di un potere “maschile”, pure là dove venga esercitato da una donna, in quanto la rappresentanza del patriarcato non abita, interamente, presso i maschi della specie: attraverso la funzione educativa, sono le donne a trasmetterla; e, su incarico del maschile, a rappresentarla, spesso, all’interno delle istituzioni.
Il punto nodale del tutto sta, peraltro, nel fatto che per questa discriminazione, anche i maschi, credendosi illusoriamente al potere pagano, e non poco.
Pagano, nel mondo, attraverso una vita alienata dal bisogno di avere una famiglia che si sostiene in un’alleanza tra pari; pagano in quanto padri cui non viene riconosciuto un diritto alla paternità paritario con quello femminile, il diritto di occuparsi dei propri figli; pagano nella solitudine in cui vivono, soli responsabili del benessere economico familiare (anche quando la moglie-compagna a sua volta lavora ma il cui lavoro, nella grande maggioranza della popolazione, è poco sicuro e meno pagato).
Privati dei doveri nei confronti della famiglia e della genitorialità, ai maschi viene richiesta una disponibilità al lavoro senza limiti: mai, nella storia del mondo, si è lavorato tanto quanto nelle nostre ricche società.
I servizi di area materno-infantile (congedi di <maternità>, asili nido, scuole materne, permessi sul lavoro per la cura dei figli) sono titolati, là dove esistono, sempre quali servizi “per le donne”. Come mai non sono pensati come servizi <alla famiglia>, che a parole è fondamento della società? Come servizi alla <genitorialità>?
Nel mentre, da sempre le donne delle classi a minor reddito hanno sempre lavorato, in condizione di sfruttamento, senza che alcuno pensasse ai loro doveri di mogli e madri angeli del focolare.
Le donne del mondo occidentale, avendo a disposizione metodi contraccettivi adeguati, stanno risolvendo il <proprio> problema attraverso la rinuncia ai figli, divenuti fonte di grave marginalizzazione sociale e lavorativa.
I loro compagni paiono aver tratto le medesime conseguenze: avere dei figli essendo neppure tanto titolari dei diritti-doveri necessari a esercitare la funzione paterna, è troppo oneroso: meglio un cane di compagnia.
Non so se questo mio pensiero regga: al momento, non ci vedo buchi logici. Mi sbaglio? Non è importante. Lo è parlarne.
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* Sottolineature mie.
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