Nel mio ultimo post avevo segnalato un libro in corso di lettura: “Zivago nella tempesta. Le avventure editoriali del capolavoro di Pasternak”, di Paolo Mancosu, edito da Feltrinelli. Un libro che mi ero perso.
Un libro corposo; ma, soprattutto, un libro che richiede una lettura lenta, che verrà interrotta ad ogni periodo da domande cui fornire risposta attraverso deviazioni: quantomeno, per me, è così; mi delizia prendere sentieri laterali, rinverdire la conoscenza di personaggi di un mio tempo passato che forse è ancora operante o, quantomeno, potrebbe suggerire cose al nostro oggi.
Ne stanno emergendo avvenimenti, protagonisti, in parte dimenticati; la correzione di ricordi erronei.
Si era alla fine degli anni ‘50; in un mondo in ricostruzione; la guerra alle spalle, nel timore di un nuovo conflitto; si viveva un tempo cui tutti si sentivano impegnati per un futuro ancora da progettare, da scegliere. Un futuro per cui ogni parte tifava.

Chiusa vittoriosamente l’alleanza contro il nemico nazista, ex alleati si riposizionavano in blocchi contrapposti.
Era un tempo per battaglie culturali in cui si giocavano scelte fondanti per un futuro di pace, in particolare per un’Italia la cui collocazione internazionale era tutta da confermare; che costituiva un importante confine geopolitico tra il blocco occidentale e l’URSS.
Era l’Italia in cui operava il maggior Partito Comunista del blocco occidentale.
Nel 1949 era stato firmato il patto NATO – di cui l’Italia fu uno dei dodici membri fondatori; l’URSS avrebbe risposto nel 1955 con il Patto di Varsavia: ambedue con funzione “difensiva” da quell’altro, ex alleato e ora inteso come potenziale aggressore.
Un po’ strano, a pensarci bene. O forse no. Sottobanco, ma non troppo, la ragione economica faceva i suoi conti e muoveva le sue pedine.
In Italia, il giovane editore Giangiacomo Feltrinelli, ricco figlio della grande imprenditoria italiana, militante nelle file del PCI, si ritrovò tra le mani, per il tramite dei rapporti che il Partito Comunista intratteneva con l’URSS, il manoscritto di un romanzo di Boris Pasternak, poeta russo alla sua prima grande prova nel genere. Quel romanzo, Pasternak lo sapeva bene, in URSS non avrebbe superato la censura se non, forse, a prezzo di un profondo rimaneggiamento che l’autore non avrebbe potuto accogliere.
È stato, quello, un tempo oggi al confine tra la storia e la cronaca; che appartiene alla memoria dei molto anziani tra noi; che fatica a farsi Storia, non foss’altro per il fatto che gli avvenimenti di quei giorni agiscono ancora.
Chi oggi occupa ruoli strategici per gli equilibri geopolitici del mondo, non pare aver rinunciato a una illusoria vittoria totale (gli uni); non pare aver rinunciato a far rivivere un passato che, in quanto tale, non potrà tornare (gli altri).
Mentre il dramma ucraino pare senza fine; mentre nessuno pare in grado di vedere una via d’uscita da tanto orrore privo di scopo, mi accorgo di non aver ripensato, di non aver riflettuto sul ricordo dell’insurrezione ungherese del 1956: l’URSS intervenne, allora, proprio come oggi; con una “Operazione Militare Speciale”, che si sarebbe risolta nel breve tempo di una/due settimane.
Mi fermo: si aprono troppe domande, troppi scenari.
Nel frattempo, se nelle ore del giorno questo volume, da infarcire di sottolineature, da affiancare con appunti, occupa le ore, restano i tempi del divano per il riposo pomeridiano; restano i tempi della notte, quando è necessario un libro non cartaceo e meno impegnativo per favorire il sonno – o per gestire l’insonnia. Un giallo, qualcosa da quelle parti. Un libro letto e riletto; un mondo noto dove rifugiarsi.
Eccomi allora a scorrere l’indice dell’e-reader: inciampo in Giancarlo De Cataldo che, chissà perché, non leggevo da tempo.
“Romanzo criminale” (2002): non proprio un libro da intrattenimento; non propriamente un romanzo; non propriamente un giallo, trattandosi di una storia attraverso la quale il giudice-scrittore Giancarlo De Cataldo aveva riversato, in forma romanzata ma anche no, la cronaca di un tempo romano che ha segnato, e ancora segna, la vita della città.
Ancora oggi non possiamo ritenere storia del passato le gesta della cosiddetta “Banda della Magliana”: gli anni ‘70 -’90 del secolo scorso non sono alle nostre spalle; l’infezione non è debellata. Restano aperte domande fondamentali sui drammi di allora.
Al romanzo era seguito il film (David di Donatello 2006), per la regia di Michele Placido; e serie TV (che non ho mai visto).
Inizio a rileggere “Romanzo criminale“; interrompo la rilettura, ormai avanzata, che pure scorre: la terminerò; non ora, non subito.
Nel frattempo, De Cataldo ha scritto altri romanzi, ha scritto opere e racconti in collaborazione, ha scritto per il teatro: continuando, mi pare, ad occuparsi di cronaca giudiziaria e sociale.
Ed anche no: dal 2020 ad oggi ha scritto, a tamburo battente, anche cinque romanzi di una serie – “I casi di Manrico Spinori”: vogliamo dire di narrativa da intrattenimento? – che io scopro solo ora, in occasione dell’uscita del quinto libro, Il bacio del calabrone, Einaudi 2024.
Preceduti da: Io sono il castigo, 2020; Un cuore sleale, 2020; Il suo freddo pianto, 2021; Colpo di ritorno, 2023.
Le quarte di copertina parlano di un personaggio che nulla ha a che fare con il genere cui avrei associato i temi propri della scrittura di Giancarlo De Cataldo, i cui protagonisti e le cui storie, volti, gli uni e le altre, in personaggi e in accadimenti (anche) di fantasia, raggiungevano una aderenza al reale che rendeva massimamente la connotazione sociale, una finalità civile, non saprei come altro chiamarla, della scrittura.
Detto fatto: era necessario partire dall’inizio della serie che, di sera in sera, mi sono letta.
La scrittura di De Cataldo si è rivelata conosciuta e attesa: sintetica, chiara, nel contempo capace, anche in un romanzo di intrattenimento, di farsi portatrice di riflessioni e approfondimenti, al modo di questo autore, senza bisogno di starci a far su un trattato, con l’efficacia che forniscono un ottimo vocabolario, un fraseggio ben costruito, la chiara visione di un mondo che, in quanto conosciuto e amato, non viene giudicato se non come umano, al modo proprio di una comunità e di una cultura.
Anche in questi romanzi si parla di Roma, della sua storia, della sua gente.
Ed ora? Che restituzione sarà possibile dare delle investigazioni del P.M. Manrico Leopoldo Costante Severo Fruttuoso Spinori della Rocca dei conti di Albis e Santa Gioconda? Detto “il contino”?
Con un personaggio di tanto nome va precisato: non si tratta di romanzi umoristici – solo leggeri, umani; dove sì, a tratti si sorride pure.
Li ho apprezzati? Sicuramente, dato che non ne ho dismesso la lettura. Potrei dire con qualche riserva, e magari più d’una, sul protagonista: che non poteva essere diverso, pena il mostrarci un essere umano privo, ma proprio privo, di qualsivoglia manchevolezza.
Un bel personaggio, in effetti, di nobile casata, di nobili maniere e, nell’ambiente dell’aristocrazia romana (nonché della magistratura romana), considerato pericolosamente un po’ sinistrorso.
Manrico Spinori, chiamato Rick dagli amici, è un patito e grande intenditore della lirica.
È pure, temo, un po’ sciupafemmine, con sensi di colpa fasulli che di più non si può; un figlio di mamma (e di che mamma! Leggere, per conoscere la contessa Elena); uno che ha distrutto il proprio matrimonio per incapacità di legarsi davvero a una donna – mamma a parte, per l’appunto. Ma tant’è: Il personaggio si fa apprezzare come magistrato non solo integerrimo ma pure dotato di una grande sensibilità ai diversi modi dell’innocenza di ogni persona, colpevoli in primis.
Ha un segreto, come linea-guida nelle sue inchieste, inconfessabile e (quasi) inconfessato: Il P.M. Manrico Spinori, nell’affrontare un caso di omicidio, cerca, quale filo conduttore per individuare la passione che ha costituito il movente dell’assassino, l’opera lirica che ne può fornire un paradigma di lettura. Nella lirica, egli pensa, si trova rappresentata ogni passione umana; e tanto basta per cogliere il filo conduttore di ogni caso; e individuare l’assassino di turno.
Nel mentre, l’improbabilità del personaggio (da cui la sua forza letteraria) avrà quale contrappeso l’improbabilità delle coprotagoniste: il P.M dirige infatti un gruppo di investigatrici donne.
Primeggia su tutte l’<ispettore> Deborah Cianchetti, “un metro e ottanta di muscoli e tatuaggi”, bella e “fascia”, romanescamente e simpaticamente coatta; jeans e chiodo; con una gran voglia di menar le mani. Nuova nel gruppo, dovrà trovare il modo per legare con le colleghe.
A contenere il gruppo, e quale personaggio principale, c’è Roma. Ci sono le sue strade, i suoi luoghi, le vite, le relazioni; c’è il macellaio amico Bruno, vecchio comunista deluso; c’è un suggerimento di aristocrazia esule dalla realtà; c’è quel tanto (e di più) di piccolo malaffare, di mondo di mezzo, di umanità; c’è “Ndospiospio”, il programma tv spina nel fianco di ogni inchiesta.
C’è Lediosca (soprannome-contrazione di “Lady Oscar”, per chi ricorda), ricettatore, confidente ma con discrezione, brutto, grasso; un po’ innamorato di Manrico, capace di mantenere un difficile equilibrio tra il mondo di sotto e il mondo di sopra
“Il suo sorriso che voleva esser furbo e appariva incongruamente disarmato provocò a Manrico una stretta al cuore. C’era un segno di profonda infelicità, in quella creatura dal corpo brutto.”
Poi, la gente si muove, oggi, e c’è anche un po’ di Milano, in queste storie; una città la cui cosa migliore, oltre alla Scala, pare essere il treno per Roma.
Che altro dire. Solo che, in questi romanzi, De Cataldo non ha cambiato genere come mi era parso a un primo impatto.


