Angelo Floramo, “L’Osteria dei passi perduti”, Bottega Errante Edizioni, 2017, 2024
Ho letto, finora, una metà di questo libro, composto da 14 racconti più una Prefazione-racconto dell’autore che, da sola, vale il tutto: sono 192 pagine di scrittura ineguagliabile, di cui non so davvero come scriverne. Non posso, tuttavia, attendere oltre di raccontarne. Né posso leggere questi racconti di fretta.
Tema. Le terre di confine e la loro natura di incontro; la loro natura di distanza, costitutiva del dialogo, della ricchezza delle contaminazioni.
Tema: il vivere-condividere – guardare, ascoltare, impegnare e impregnare la pelle gli occhi l’udito del senso di sé e dell’altro – dentro la terra e le sue storie.
Tema: Luoghi privilegiati per incontrare il confine come incontro. Luoghi di vino, di cibo; di profumi e sapori; di odori di gente, di contatto. Luoghi del narrare e ascoltare: Le Osterie.
Questo libro, di un autore che non conoscevo, mi porta a desiderare di non leggerne altri; non prima di aver catturato ogni parola di quest’uomo; che equivale a catturare territori di vita, con tutti i sensi all’erta; con le luci e l’oscurità; nella fisicità, nei tempi e nei modi del paesaggio e dell’abitarlo; fondendosi in loro: perché questo è il miracolo che fanno le parole; questo è ogni racconto.
Finite queste pagine, come farò a scegliere da quali delle sue molte pagine riprendere ad ascoltare Angelo Floramo: da “La veglia di Ljuba”** a “Breve storia sentimentale dei Balcani” – che, non so come, rimane sempre storia di terre sconosciute, nascoste – sempre altre? – non saprei dire meglio; prede erranti ed erratiche di commentatori di guerre, multiformi e nascoste -intrise-occulte di vita: avviando il cammino dalle terre friulane, dalla Venezia-Giulia. Dal Carso, ecco. Qualcuno può forse dire di conoscere il Carso?
Tema: lo sconfinamento, che non tiene in alcuna considerazione confini sempre stati fasulli e, a modo loro, reali come lo sono i diversi linguaggi, i loro prestiti; come lo sono le piccole patrie, diverse, multiformi di storia, nella loro natura di incontri.
Terre di scontri e sangue. Terre di relazioni e di convivenza, di riserbo e accoglienza del viandante, in intimità.
Angelo Floramo racconta. In prima persona. Intorno (lettori) ascoltatori. Apre con una Prefazione in forma di racconto: “La ballata dello zingaro”.
Sarà dunque Osteria. La prima.
Una luce nella notte, riparo al temporale, alla strada perduta. Allo smarrimento, di sé e del proprio andare.
“Oggi questo è uno dei miei posti dell’anima. Ma quando ci sono entrato per la prima volta ero bagnato fradicio. Con la congestione che mi tappava il naso e i brividi che facevano dei miei lombi una gelatina tremula e malferma.”
A partire da una notte di pioggia sul Carso, in un viaggio dalla meta non detta, dal disorientamento della strada perduta – nel bosco? Dove altro ci si potrebbe perdere? – dalla caduta dentro fango e foglie morte; a partire da una luce, una salvezza possibile. Riparo e accoglienza. Cibo, storie e canto.
Una scrittura, un fraseggio, che ferma il lettore ad assaporare la singola parola, i sensi all’erta. E sarà tatto, odorato, ascolto, mentre gli occhi assorbono il tuo essere-sentire-patire un luogo-tempo; sarà vivere, integri e interi, dove anche la spiacevolezza di un momento difficile vale l’esserci.
Il Carso. Terra di confine; di incontro e di un altrove.
Nella notte un’auto percorre una strada perduta, verso dove? Dentro il buio, ormai, e il maltempo, dentro una natura che si fa ignota.
“Sembrava che il demonio dell’inverno avesse deciso di accumulare là sopra, sull’altopiano, tutte le nuvole del mondo per poi spremerle fino a trasformarle in nebbia sottile con le sue braccia di bora nera, rabbiose come quelle di un amante tradito.”
È un viaggio, del tutto vano chiedersi verso dove. Dentro strade perdute, paesi perduti; dai nomi antichi.
“E senti che la stanchezza ti intorpidisce la coscienza. O almeno quanta ne è rimasta dopo una giornata dedicata a inseguire fantasmi. L’armata perduta degli ungheresi, che qui hanno combattuto e sono morti cento anni fa, spazzati via dai venti della Grande Guerra”.
L’auto fatica, le curve della strada sono incerte; l’abitacolo denso di fumo chiede l’apertura, almeno un po’, del finestrino, e la pioggia entra a frustarti. La strada si restringe, è il nulla, è il panico, mentre l’automobile “va dove la porta l’anima sdrucciolevole della via.”
Lasciare l’auto. Una luce. E i passi? I passi vengono travolti.
Non resta che cadere. “Così, sulla pancia, con il tonfo molliccio di una mole floscia impregnata di umori che rovina per terra. Un tuffo sulle foglie morte e l’erba ghiacciata, in croce come un angelo dalle ali impastoiate nei peccati dell’umanità. (…) Ma mi viene da ridere. Sghignazzo come un imbecille totale, incosciente del suo destino.”
Un’Osteria! E no, non si può raccontare. Occorrerà leggere. Rileggere. Ascoltare: “profumo di buono, di vapori speziati e odorosi conversari”.
Occorrerà incontrare Anja, la vecchia ostessa che ti spoglia di brutto; e offre abiti asciutti. E Janoš, lo Zingaro. Che suona la cetra ungherese.
”La vuoi sentire una storia bella? Tu mi paghi da bere e io te la canto.”
“Ferenz si chiamava, e l’imperatore suo serviva, il vecchio Imperatore che aveva gli occhi azzurri come il mare, il mare di Trieste”
“Ventitré anni aveva Ferenz quando a Leopoli studiava, innamorandosi di doversi innamorare: O Lwow, gemmata Gerusalemme del Nord, dove l’osteria sta con il tempio, il pope con il prete, mentre i santi e le puttane ballano insieme la czarda degli addii. E ai rabbini lasciano i pudori di quel Dio che si nasconde nell’ombra delle sinagoghe. (…)”
“… anche lei, Sonja, era bella, figlia di Slovenia. Bionda aveva la treccia come il fieno. (…).”
Il cammino riprenderà. Domani.
“Il cimitero di guerra ungherese di Gorjansko compare all’improvviso dopo l’ennesima curva di una strada stretta, che risale piano l’arruffata dorsale del Carso, lasciandosi alle spalle la terra bisiacca* con le sue intersezioni di accenti meticci, plurali, in cui friulano e sloveno si rincorrono (…)”
Il confine con l’Italia è là. Lingue e genti si intrecciano, “dolcezze e asperità si mescolano e si rifrangono assieme come le acque del Lisert, che proprio in questi slarghi si fanno da dolci salmastre, nascoste al respiro adriatico proprio là, dietro quelle rocce bianchissime levigate dalla bora (…)”
“(…) È Ottobre. I ragazzi che dormono nella fossa sentono che è già arrivata l’ora della raccolta. Dovrebbero poter essere a casa, adesso, ad aiutare il padre e i fratelli per la vendemmia (…). Bisogna far presto, sembra sussurrare tra le foglie secche la bora che serpeggia alle radici delle querce.”
“(…) in Galizia, a migliaia di chilometri da qui, ci sono piccoli cimiteri identici a questo, dove però riposano giovani soldati friulani: sono goriziani, aquileiesi, contadini di Aiello inviati lassù a combattere contro le armate dello zar da quello stesso imperatore che <aveva gli occhi azzurri come il mare, il mare di Trieste. E forse anche loro sognano che è tempo di tornare>.”
“Mi volto ma non c’è più Janoš, il Cigan, a cantare per me altre storie d’amore, di vino e di vendetta. Null’altro che il vento. E tutti questi fantasmi che ci volano dentro.”
L’autore è un insegnante di materie letterarie, di Storia, in quel di Gemona, credo; oltre che consulente scientifico, come esperto di manoscritti della Biblioteca Guarneriana di San Daniele del Friuli. E occorrerà aggiungere, tra i suoi molti libri, “Guarneriana Segreta” – sta già sul mio tavolo; e attende.
Capodistria, Veneto, Le colline del Soligo, terra di Andrea Zanzotto (e terra mia); e ancora Slovenia; ancora cibo e riparo; e ricordi; cicatrici e solidarietà. Incontri: con la terra e le sue genti. A scoprire come le diversità siano ponti.
Ebbene sì, ho sbirciato, qua e là, le storie non ancora lette. Ho raccattato frasi, perché qui è tutto poesia, ogni singola parola, ogni immagine un racconto a sé. Te la farai rotolare nel palato della mente; profumata, saporita.
Come sempre, quando un libro mi cattura – ma a questo mi sono consegnata da me! – trovo difficilissimo parlarne. Le parole per dirlo sono solo quelle dell’autore, che racconta proprio a te; poche parole e ci si conosce, per sempre; ci si consegna nell’ascolto. Si ritorna a quanto già letto, nel rifiuto di lasciare quella storia, quei luoghi, quegli incontri.
Si “ricorda”: un tempo mai vissuto, luoghi mai visti, emozioni che ri-conosci. Ed è casa.
Non so come dirlo ma vorrei veramente essere creduta: leggete questo libro.
Finirò di leggere queste storie, le cui pagine rimarranno vicine a me, sul comodino, a lungo.
Così facendo, non finirò di andar per osterie, per grotte e anfratti, per paesaggi; per temporali e notti; non cesserò di incontrare storie.
Non finirò di venir macerata dall’insensatezza delle guerre; non finirò di “sapere” che le guerre sono quelle cose che fanno tutto il male del mondo senza essere portatrici di verità alcuna.
A un’altra volta qualcosa sull’autore: ora no. In questo momento si abita il racconto. Tutti interi.
Per la verità, occorrerà dire qualcosa anche di Bottega Errante Edizioni. Perché l’editoria, quella vera, è per sua natura “di frontiera”.



