Inès Cagnati, “Génie la matta”, Adelphi 2022.
Traduzione di Ena Marchi
È difficile, per me, proporvi questo romanzo, come sempre mi accade quando inciampo in un libro <per la vita>; nel caso di un’autrice di cui nulla sapevo. Un’autrice contemporanea, che tuttavia ci ha già lasciato.
Un libro duro, lirico e insopportabile, denso di vita e di capacità di amare. Di dolore.
Un linguaggio asciutto, capace di far parlare i silenzi.
Inès Cagnati: 1937 – 2007. Figlia di contadini veneti emigrati in Francia; nata a Monclar, un piccolo paese del sud, poco meno di 900 abitanti. Scrittrice da poco conosciuta al pubblico italiano.
Nel 1922 Adelphi ha pubblicato, per primo in Italia, questo romanzo, seguito dai racconti, “I pipistrelli” (2023), per completarne l’opera con il secondo romanzo (primo pubblicato dall’autrice), “Giorno di vacanza ” (2024).
Manca all’appello in edizione italiana, per ora, “Mosè ou le lézard qui pleurait” (1980).
Stretta tra due identità, una di lingua madre italiana (probabilmente dialettale) e una di lingua francese, appresa a scuola, Inès Cagnati studierà, divenendo insegnante liceale e scrittrice.
Nella scrittura riverserà il suo sentirsi priva di appartenenza, segnata da una invisibilità data dal suo status di immigrata – non più italiana, faticosamente francese; formatosi in un contesto di ristrettezza economica, sociale e culturale che, pur superato, non poteva prescindere da un imprinting fragile, che segnerà la sua personalità e troverà espressione, con grande forza, nei suoi romanzi.
Nella scrittura riverserà il suo conoscere, con un linguaggio asciutto e in apparenza non partecipante, le vite di bambini e bambine invisibili, di adulti straniati. Il risultato sarà una descrizione volutamente distanziata, fattuale, che spezzerà il cuore di chi legge; e, per questa via, otterrà di trasmettere una assoluta capacità d’amore; di cogliere la felicità là dove si trova; nella natura, nella vita di piccoli animali; nella cura per una mucca cieca.
Con il dolore, anche la capacità di amare e di provare la felicità diverranno insostenibili. Dilateranno il respiro; senza resa alcuna ai fatti della vita.
Protagoniste, una giovane madre, “Génie la matta” e una figlia bambina, Marie, voce narrante del romanzo. Vite povere, marginali. Al limite.
Sarà la bambina a narrare di sé, e attraverso sé, della amatissima madre .
La vita di Génie si rivelerà poco a poco. Figlia di una famiglia benestante; uno stupro, che le ha dato Marie; un matrimonio rifiutato; la cacciata dalla casa che, con la sua scelta, Génie ha disonorato.
Una piccola casa in rovina – una stanza? – ai margini del paese, sul fiume vicino ai salici. Génie cresce la sua bambina lavorando a giornata per chi la richiede; lavora allo stremo sui campi, nelle case altrui.
La chiamano Génie la matta; lei tace e lavora.
Accudisce, nel silenzio, la figlia Marie, portandola con sé al lavoro, dove la bimba dovrà starsene in disparte, sola, senza disturbare.
“Non starmi tra i piedi”
Marie, la bambina ascolta le rare parole di Génie, sempre quelle. Poi, le parole che le uscivano dal cuore quando il pensiero e la fatica sfuggivano al controllo trasformandosi in voce – sussurrata, solo per sé, nella vecchia casa vicino ai salici del fiume. Parla a se stessa Génie, quando si lascia sfuggire il dolore della sua vita, quando si concede poche parole, sempre uguali, ignorando, scordando, mentre piange, l’ascolto della figlia bambina.
“I suoi occhi avevano assunto i colori delle lacrime.
Diceva “Non ho avuto niente io”
Io dicevo: “Hai me”
Ma lei continuava a piangere.”
Génie è sola, con la sua bambina senza padre. Non c’è nulla per lei, e la violenza subita non ha riparo.
Cacciata da una madre che non le consente l’accesso alla sua casa di famiglia, di gente benestante e rispettata. Ha un padre, che accoglie la nipotina, quando vi entra, con un sorriso triste e una carezza: le offre una mela, un po’ di frutta, immerso nella lettura dei suoi amati libri, cui subito torna.
La nonna sussurra, a distanza, con rancore: “Viene a spiarci.”
Poche le parole di Génie. Tanto il lavoro. Ad ammazzarsi di fatica nei campi, o nelle case altrui; a portare a casa di che nutrire sé e la bambina. Di giorno in giorno.
Al mattino, quando va al lavoro sui campi, o nelle case, Génie porta con sé Marie. Lungo il percorso la bambina rincorre la madre, senza poterla raggiungere, nel suo passo lungo e veloce. La madre si ferma ad attenderla, Marie corre felice di venir attesa; la madre riprende il suo passo veloce prima di venir raggiunta.
“Non starmi tra i piedi”
E Marie racconta:
“Andavo fuori. Rimanevo seduta contro un muro o sotto una siepe ad aspettare che lei passasse davanti alla porta. Mi ricordo degli odori, del sole sui muri, di lei nelle cucine buie, dei girasoli che giravano nei campi.”
Conserva una grande paura, Marie: di essere abbandonata dalla madre, che ama allo spasimo. Ed è felice allo spasimo ogni giorno quando la madre, finito il lavoro, la sera, la raggiunge per tornare a casa, a consumare un povero pasto, a condividere un letto e un momento in cui può abbracciarla e venirne riabbracciata.
“Dormi!”
Una madre fredda, Génie: non c’è tempo, non c’è spazio da dedicare alla figlia, al di fuori delle cure primarie: nutrirla, vestirla al meglio possibile, mandarla a scuola. C’è chi le regala abiti smessi e lei cuce, rimedia. Non ci possono essere parole bugiarde nella loro vita.
A scuola Marie è brava; ed ignorata dai compagni. Non ha amici.
Marie cresce; Marie racconta. Le sue parole, essenziali, disadorne, conducono chi legge semplicemente a prendere atto di un mondo di sofferenza e silenzio. A patirlo. A sentire l’ineluttabilità di un destino.
A sentire il bisogno di amore della bambina e della madre, i momenti di felicità di Marie per il mondo che la circonda, che le fa compagnia nelle sue ore solitarie: per gli alberi, per gli animali; per una mucca cieca da accudire, una compagnia che la aiuta a fronteggiare il timore che la madre non ritorni. Ogni giorno.
Crescerà, Marie, conoscerà l’amore. Studierà.
Conoscerà il mondo, appena poco più in là del paese.
E se pure nulla di ciò che ama persisterà, nel suo mondo, la madre resterà una presenza forte, essenziale, priva di parole inutili. Resterà il timore di perderla.
“Non starmi tra i piedi”.
Marie dice il proprio amore per lei. La paura di non vederla tornare.
“…aspettavo la sera, l’ora in cui saremmo state insieme a letto, in cui non avrei più dovuto aver paura…”.
Marie racconta la vita della madre; con la propria. Racconta la vita difficile e faticosa di Génie e i propri momenti di felicità, di vita.
“D’inverno andava nei boschi a fare legna. (…). Una volta, era martedì grasso, rientrando aveva fatto le crêpes. Mi ricordo del freddo, delle dita gelate, del fuoco che scottava, del profumo di vaniglia, di noi due a far legna nei boschi deserti.”
La casa della nonna. Gli zii, i cugini, che la ignorano. Il nonno, che la accoglie:
“Sei tu, bambina mia”
Racconta le ore del giorno, mentre la madre lavora. La sua libertà.
(…) Correvo giù per il grande prato verso i salici che parlavano al vento.”
“Mi sedevo tra le sterpaglie e giocherellavo con la sabbia bianca, oppure vicino a una buca di volpe (…) mi raccontavo la storia di una volpe che se avessi aspettato abbastanza sarebbe uscita dalla tana e io l’avrei addomesticata e mi avrebbe seguito dappertutto. Ma sapevo che non era vero. Cercavo i nidi dei corvi, pensavo a come avrei addomesticato anche quelli… e tutti, le volpi, i corvi e io, ci saremmo voluti bene tranquillamente, come le famiglie felici.”
“…correvo verso casa e verso di lei, con il cuore gonfio di tristezza e gioia.”
Una vita segnata da una faticosa, difficile, normalità, quella di Génie. Sono di tanti tipi le vite normali. E comunque finiscono, come ogni vita. Per qualcuna, talvolta, spesso, qualcosa crea un inciampo. Perché no, dentro un piccolo tempo di felicità. Una possibilità.
Tra le vite che, tutte, seguono regole, giuste o meno, ci sono quelle che aprono speranze fuori norma, che chiedono, in conseguenza, un brusco rientro alla realtà.
La vita degli altri continua. Altre vite. Come tante. Invisibili. Che si svolgono. Si concludono.
Com’è che, dentro tutto ciò che accade, attraverso lo sguardo di Marie che narra, in modo piano, trova spazio una felicità di fondo che mozza il respiro.
Nel corso della storia viene narrato – un cammeo, importante – che la madre di Génie avrebbe voluto far chiudere la figlia in un manicomio.
”Una matta in libertà tutti la guardano. Ma una matta rinchiusa se la dimenticano.”
L’autrice, in una intervista rilasciata a Laurence Patton, che chiude il libro, dirà, a proposito del manicomio:
“(…) fuori da quelle mura sopravvive almeno il desiderio di diventare matti e di scegliere la forma della propria follia per protestare contro l’insopportabile.
E poi, matti o meno, ci sono il cielo, il sole, il profumo dell’erba”.


