“Giallo” è letteratura

Marco Vichi, Le storie del Commissario Borrelli, 16 volumi – Guanda

Questa ormai piena estate mi ha colta d’anticipo. Al primo caldo, ancora piacevole, ero già stesa sul divano, alle prese con un giallo anticamente già letto (Il Commissario Bordelli), del quale avevo mantenuto un buon ricordo, pur avendolo, di fatto, scordato.

Sia come sia, la posizione “divanata”, le prime calure ancora tollerabili, l’imminenza di una vacanza (rinviata, vicina, ma ancora in divenire) mi hanno fatto scaricare, al ritmo di quasi uno al giorno, tutta la serie (o quasi, dovrei controllare), di cui il libro già letto era stato il primo, al tempo apprezzato ma nulla di più. Non era stato il suo momento.

Ed eccomi rientrata da una troppo breve vacanza di tutto riposo, a iniziare a scriverne: mentre finisco la serie, ritorno al già letto, e cose così.

Ora, l’autore è ben noto, salvo rischiare l’anonimato nella pletora di Commissari qui e Commissari là che la piccola media grande editoria e dintorni sforna a go-go; in attesa che il Commissario di turno diventi una serie televisiva e tanto basta: i libri di valore del genere poliziesco, nelle loro varie declinazioni, tanto più se seriali, non occorrerà più leggerli e, per tale via saranno, temo, perduti. 

La cosa (per me) è triste perché, nella foresta dei Commissari, qualche albero spicca: tra i gialli investigativi “classici”, i “cosy”, i gialli “storici”, ci sono quelli che non hanno, o non proprio, una classificazione. Che hanno, invece, un valore letterario indiscutibile, possedendo una qualità, di scrittura, di contenuti, di pensiero, che va al di là del genere, anche, e talvolta nonostante, alcuni (prescritti) cliché richiesti.

Le “serie” poi, trattengono il lettore attraverso una storia “a puntate” che possiamo a buon diritto chiamare “gialla”: omicidi a piene mani, anche più d’uno a libro, spesso pure orripilanti, su questo niente da dire; con il contenuto investigativo (e il connesso svago, richiesto dal genere) ci sta tutto.

Non sempre, tuttavia, la serie apparterrà pienamente al genere: il lettore la manterrà nella memoria diversamente. Manterrà la storia personale del Commissario, la sua evoluzione e una chiusura della serie stessa che avrà portato più o meno a compimento il segmento di vita del protagonista, che aveva costituito il vero nucleo dell’opera. Ma non solo.

In questa serie, in particolare, c’è molto altro. Con il deuteragonista prescritto (l’Ispettore/Ispettrice di turno che affianca il Commissario), ci sono un gruppo di altri personaggi il cui ruolo fa (anche) parte dell’attività di polizia ma ne è in parte estraneo. 

Di romanzo in romanzo, il Commissario Bordelli, scapolo, le cui storie d’amore cozzano con la sua professione ma soprattutto con il suo carattere, raccoglie intorno a sé un gruppo di amici – tutti uomini, ed è un dato interessante – che nulla, di necessità, condividono tra loro se non aspetti particolari di personalità, di competenze, di interessi; e soprattutto un grande piacere del mangiar bene, del bere bene e del narrare e ascoltare storie.

Così, periodicamente e con regolarità, il gruppo si trova a casa del Commissario, due del gruppo si occupano del menu, anzi, di <due> menu in gara tra loro e di molto, ma molto alcool, ovviamente di ottima qualità, mentre, a fine cena, ognuno dovrà raccontare una storia, più o meno reale, personale o accaduta ad altri, del paese d’origine o conosciuta per incontri avuti: storie di vite e di incontri. 

In questa serie c’è, oltre alle faccende personali del Commissario Bordelli (nome azzeccato) una seconda protagonista: la città di Firenze e un fase della sua storia: gli anni ‘60 -’70.

C’è il quartiere popolare, c’è la gente; c’è la piccola delinquenza di brave persone, ci sono i modi delle relazioni propri del luogo. C’è la storia del primo dopoguerra e oltre: ancora non storia, già non più cronaca. 

Il Commissario Bordelli vive, si muove, opera nella sua città e ci condurrà in un percorso di conoscenza – posso dire di condivisione, di alleanza? – che, a partire dal 1963, non mancherà di un costante richiamo alla propria vita precedente di combattente nella seconda guerra mondiale, e di partigiano, aggregato a una formazione che non conoscevo e di cui, incuriosita, dovrò informarmi bene.

C’è un dopoguerra che presenta ferite ancora aperte, cicatrici non risolte, irrisolvibili.

C’è una piccola storia dell’Italia di quegli anni. Di un faticosa uscita/non uscita dal ventennio e da una guerra vinta perché perduta. Una storia di conflitti ancora aperti, di forti alleanze e contrasti.

C’è Firenze, e l’alluvione del ‘66. Iniziano le rivolte studentesche e operaie.

Saranno, per chi legge, storie, fatti che chi ha i miei anni ricorda bene, che ha vissuto; storie di cui ha conosciuto chi le ha vissute, racconti e avvenimenti che hanno fatto parte della propria giovinezza; in un mondo di povera gente per il semplice fatto che, in quegli anni, persino non sapendolo, la gente <era> povera, anche se oggi viene dipinta (ed è stata) la generazione che ha vissuto  la ricostruzione e la rinascita italiana; gli anni del boom economico.

È, credo, una faccenda ancora di età per chi, giovane oggi, di quegli anni conosce vagamente dei titoli ma non i vissuti, non la fecondità di un tempo di partecipazione, di condivisioni e antagonismi, di solidarietà; di lotte, che hanno preceduto anni bui ma, ancora, capaci di speranza. 

E di incubi notturni, per chi a quegli anni è sopravvissuto, perché la guerra non ti lascia mai più, se l’hai vissuta. E perché la guerra era ancora e sempre un orizzonte per la vita.

Marco Vichi ci conduce dentro un mondo che vede amici guardie e ladri, il questurino con la piccola delinquenza, quella sana, di brava gente, perché mangiare si deve, per sopravvivere; ci conduce dentro un mondo di quartiere in cui ci si conosce, che consente di fare gruppo all’intellettuale un po’ pazzo e  ad un tempo saggio, con il titolato decaduto che si arrangia, ma con stile, in un mondo che cambia; con amici del questurino e del più o meno ex ladro più o meno pentito; in compagnia di un anziano anatomopatologo e di un colonnello in pensione dei servizi segreti che si dedica alla cucina con l’ex ladro divenuto cuoco e persona per bene (com’era peraltro sempre stato). A meno che dovesse servire l’aprire irregolarmente (si fa per dire) una porta.

La condivisione delle vite arriva al punto per cui un personaggio, protagonista di una serie di un altro autore – il colonnello dei Carabinieri Bruno Arcieri, protagonista delle storie di Leonardo Gori, a sua volta noto scrittore fiorentino – verrà “prestato” alla penna di Marco Vichi e al gruppo di amici del Commissario Bordelli. 

L’incontro tra i due protagonisti era doveroso, direi, per un per un personaggio che, oltre ad aver vissuto, per la penna di Leonardo Gori, a Firenze, negli anni seguiti all’8 settembre 1943, se ne era allontanato per, infine, tornare, dopo varie peripezie, nella Firenze sua e del Commissario Bordelli. Impossibile non farli incontrare.

Per la cronaca, si tratta anche qui di sedici libri – e alla mia maratona di lettura ho dovuto aggiungerne un paio (per ora) della serie del capitano (infine colonnello) dei Carabinieri Bruno Arcieri, di Leonardi Gori, centrati su fatti e avvenimenti di invenzione, di personaggi e trame di fantasia inseriti tuttavia in una realtà storica e di cronaca precisa. Dovrò farmi un’altra maratona?                                                            

Se pensavo, dopo quel vero colpo al cuore di un libro come “Génie la matta”, che mi ci voleva un buon giallo, di passaggio, prima di scegliere il nuovo libro, ho mancato l’obiettivo-relax: pur senza mancarlo. 

Innanzitutto, c’è la scrittura di Marco Vichi. E non dico altro: leggere per credere. C’è l’aver incocciato l’obiettivo di una lettura comunque rilassante, capace di far convivere la qualità della scrittura, la serietà dei contenuti, con la leggerezza del libro da intrattenimento implicito, se vogliamo, come richiesto dal genere e dalla serialità: una serie, dunque, di buoni gialli che tuttavia, di libro in libro, hanno, anche, cambiato genere, per cambiarlo ancora, per divenire la cronaca di un tempo storico, in un’ottica che fornisce alle vicende narrate la corposità della vita quotidiana, lo sguardo e i vissuti della gente comune e della povera gente; che fornisce, fuor di accademia, un punto di vista senza accomodamenti: da condividere o meno, non importa. Da ascoltare.

Avendo sempre il morto ammazzato di turno di cui scoprire e catturare l’assassino, come dovuto.

Nato nel 1957, Marco Vichi è un autore molto prolifico: oltre la serie del Commissario Bordelli, pubblicata interamente da Guanda, ha scritto numerosi altri romanzi, ancora in massima parte pubblicati da Guanda, e che dovrò leggere, sicura di incontrare una scrittura pregevole, di un autore che non esaurisce la sua produzione nel genere del poliziesco – che resta comunque sempre un buon approccio per catturare e intrattenere il lettore (Simenon, Camilleri e non solo, docent).

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Note: Serie del Commissario Borrelli, in ordine cronologico:

Il commissario Bordelli (2002), Una brutta faccenda (2003), Il nuovo venuto (2004), Perché dollari? (2005), Morto due volte (2006), Morte a Firenze (2009), La forza del destino (2011), Fantasmi del passato (2014), Nel più bel sogno (2017), L’anno dei misteri (2019), Un caso maledetto (2020), Ragazze smarrite (2021), La casa di tolleranza (2021), Non tutto è perduto (2022), Nulla si distrugge (2023), Meglio di niente (2024)