Paolo Cognetti, «Le otto montagne», Einaudi 2016
Questa non può essere, non da parte mia, una “recensione” nel senso che abitualmente diamo a questo termine. Tanto più trattandosi di un libro molto bello – ne fa fede l’autore e la sua scrittura sempre felice, il piacere di un italiano curatissimo senza sforzo alcuno percepibile, la costruzione perfettamente equilibrata del racconto, senza cadute, mai.
E tuttavia io, da questo libro, non sono in grado di prendere la distanza necessaria per poterne scrivere in modo, diciamo, equanime. Non ne sono in grado, pur desiderando proporlo, a causa del suo essere entrato, di prepotenza, nella mia vita, precipitandomi dentro la storia – non come uno dei personaggi, nessuna identificazione, ma per l’essermi trovata, non veduta, tra gli anonimi che abitano là, nel borgo di montagna teatro degli avvenimenti; non ad ascoltare un racconto, bensì testimone diretta degli avvenimenti, veduti nel loro svolgimento, dalla posizione di una delle voci di paese che, nel corso della storia e della sua conclusione, avranno commentato, all’osteria del posto, nei momenti di incontro, ogni fatto, avvenimento, comportamento dei protagonisti. Ecco: mi sono trovata a vivere la parte del coro, che punteggia, e commenta, e ammonisce. Con emozioni forti, e contrastanti, molto contrastanti.
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