Andrew Sean Greer, La storia di un matrimonio, Adelphi 2008
Per questo libro sono necessarie due parole sull’autore. Giovane, nato nel 1970, gode di un’ottima critica. In Italia è pubblicato da Adelphi. Nel 2014 l’autore ha vinto il Premio Fernanda Pivano che, come noto, viene attribuito ad autori americani, tradotti in Italia, la cui opera venga giudicata rilevante.
Sempre nel 2014 è vincitore del Bottari Lattes Grinzane con il romanzo “Le vite impossibili di Greta Wells”.
Inizio con queste informazioni sull’autore e sul romanzo in quanto, a mio giudizio, “La storia di un matrimonio”, presenta aspetti che mi hanno lasciata, a dir poco, molto perplessa.
Sinossi: c’è una storia, di tipo intimistico, uno scavo dentro un matrimonio, che è – dovrebbe essere – il filo conduttore del romanzo. Il tema sta nell’incipit: “Crediamo tutti di conoscere la persona che amiamo”. Il romanzo tratta di una coppia, di un matrimonio, nel suo formarsi e nei suoi primi anni. La scrittura è in prima persona e la voce narrante è quella di Pearl Cook, giovane moglie di Holland e madre di Sonny. L’anno: il 1953; il luogo S. Francisco, l’America che, uscita dalla guerra, si ritrova immersa nel conflitto coreano (1950-1953).
La storia si basa su di un colpo di scena: Buzz, l’amico del tempo di guerra di Holland, rivelerà a Pearl un segreto nella propria vita e in quella del marito, vale a dire la storia del loro amore, rivelandole la propria infelicità per aver perduto Holland e l’infelicità di Holland nella sua vita con lei.
Segue il racconto delle riflessioni e delle scelte di Pearl, fino al positivo sciogliersi dell’intreccio. Il tutto è condiviso da Buzz, che affiancherà Pearl nella costruzione di una via di uscita per tutti loro. Holland, nel frattempo, è solo colui di cui si parla. Per sapere di cosa si tratta dovrete leggere il libro, la cui scrittura è peraltro accattivante
Fin qui, tutto bene. Dove sta il problema? Provo a parlarne.
Innanzitutto: L’autore usa l’espediente narrativo di far sapere solo a un certo punto del romanzo (pagina 61 su 210 pagine totali, e a quel punto tutto è già successo) che la coppia di cui trattasi è nera. Una specie di colpo di scena. Anche se poi, con la storia, il problema c’entra poco. Prova ne è che tutto il racconto filava benissimo prima che venisse espresso questo tema. E tuttavia, nonostante l’espediente sia talmente strumentale da risultare disturbante, poteva avere un senso, a patto che la negritudine divenisse un approccio centrale nella narrazione. Ma non è così, non proprio, il tema risulta solo accennato, non svolto.
Ci sono poi altri temi, troppi: La guerra. I diritti civili. Il Maccartismo. La condanna e l’esecuzione dei coniugi Rosenberg. Ma quanti conoscono davvero quest’ultimo caso, e i fatti di quegli anni? I più anziani magari ricordano Marlon Brando nel film Sayonara ma poco o niente di più. Non parliamo poi del tema del Maccartismo.
Sono temi molto importanti che, una volta posti, necessitavano di venir svolti e necessitavano, nell’economia del romanzo, di avere un vero ruolo: e invece vengono unicamente aperti e pressoché lasciati là. C’è, sì, un punto, si tratta di tre pagine in cui vengono trattati, ma sono pagine tardive per l’economia della storia e, soprattutto, inserite a forza, senza che il tema di contesto contenga veramente la storia.
Ci sono poi altri flashback sulla nascita dell’amicizia tra Buzz e Holland, sulla conoscenza, iniziata da adolescenti tra Pearl e Holland in circostanze molto particolari, premesse di un matrimonio che sarebbe poi avvenuto tra due sconosciuti, ma soprattutto tra due personaggi di cui, al di là dei fatti narrati, non si potrà dire niente se non che si sono sposati.
La quarta di copertina commenta questo romanzo affermando “Sarà allora per la dolorosa lucidità con cui la narratrice riesce a indagare la distanza che separa ciascun di noi dagli altri? O perché a ogni pagina ci chiediamo: come fa a sapere queste cose di noi?” Sorge il dubbio che chi l’ha scritta non abbia letto il romanzo.
Il personaggio femminile, non credibile, rivela ad ogni parola l’uomo da cui è stato scritto ed è infarcito di luoghi comuni sulle ‘mogli’ degni solo della peggior filmografia dell’America degli anni ’50.
Che moglie sarà mai quella che, di fronte al presentarsi di un grave problema nella sua vita di coppia, non ne parla con il marito? E che coppia è quella che, dopo tutto quello che succede, senza che né l’uno né l’altro ne parli al compagno, cancella tutto e vive una felice vita coniugale fino alla morte di lui, e alla vedovanza da nonna di lei?
“Noi mogli siamo esseri territoriali. Non soltanto con nostro marito, i nostri figli e la nostra casa, ma anche coi dolori del passato. Come i soldati cinesi murati nei bastioni perché i loro fantasmi diventassero sentinelle eterne, così noi siamo destinate a proteggere il passato, anche se non possiamo fare altro che gemere e agitare le nostre catene” (p. 75). Chi scrive è ovviamente, ma anche incredibilmente, un uomo, che non sa dar vita ad un personaggio femminile perché non ne possiede una rappresentazione.
Perplessa dal contrasto tra la critica ufficiale e ciò che ho letto, ho iniziato un altro romanzo di Greer – “Le confessioni di Max Tivoli”, per capire meglio questo autore, dal qual ero incuriosita.
A questo punto: un vago ricordo, una rapida ricerca, una sorpresa.
La vorrei condividere con voi: Chi ha letto questa recensione dovrebbe leggere quindi anche: “Lo strano caso di Max e Benjamin”…