Devo dire che, passata ad altra lettura, “Il paese delle nevi” non mi ha ancora lasciata. E non ho ancora lasciato il Giappone.
Ho scritto spesso su cosa credo significhi, su cosa significa per me, il piacere di un libro che è un piacere variegato, che si declina in moltissimi modi. Tra questi c’è anche il piacere (un po’ perverso? Non credo) di un libro che ci è – il termine che mi viene è – “ostile”.
Si tratta di quel libro il cui immaginario non ci appartiene, una lettura che, volendo fare un paragone con il sogno (anche i sogni, dopotutto, li scegliamo noi), vorremmo respingere. Così come nessuno sceglie consapevolmente un incubo, e tuttavia c’è in quello anche un nostro personale cammino, così c’è – ed è questo il caso – il sogno che ci lascia, al risveglio, un sentimento di fatica, che tuttavia contiene una forma di conoscenza di noi stessi, qualcosa che ci pare di aver, in qualche misura, accettato di incontrare. Qualcosa di cui diciamo “non so da dove mi venga questa cosa”, ma che ci interroga, qualcosa così.
Ecco: questo per me è stata la lettura di “Il paese delle nevi”. L’esperienza di trovarsi in un sogno che ci trattiene ma in cui si è a disagio, di cui non si comprende bene ciò che ci sta dicendo mentre si sa benissimo che parla a noi e di noi. Confuso? Sicuramente, ma non so dirlo meglio.
Ed è stata anche una lettura cui sono arrivata per vie traverse. Sto, da tempo, ritardando l’acquisto di “1Q84” (anche con la scusa della mole, ma è un alibi che, nel mio caso, non regge), argomentando, con un po’ di spocchia difensiva, che “non amo gli autori giapponesi”: difficile da sostenere dato che non ne avevo mai letto uno. Il problema vero sta, credo, nel disagio che provo ad avvicinare una cultura che sento totalmente altra, di cui possiedo una conoscenza superficiale ma quanto basta (a me) per percepire una insuperabile estraneità, qualcosa di diverso dalla non conoscenza; quest’ultima mi porterebbe al desiderio di conoscere, di solito funziona così.
E dunque, partendo da motivazioni tanto confuse, ho deciso che avrei iniziato il mio avvicinamente alle narrativa giapponese da, diciamo così, un classico, il primo Nobel per la letteratura (1968) assegnato al Giappone. Ed ecco il risultato.
E’ stata una lettura difficile, ma non del genere che porta ad interrompere un libro che non piace; del genere che trattiene, comunque, in una lettura lenta, che centellina le frasi, cerca di leggere bene. Peraltro, “Il paese delle nevi” non è un libro che si può “tirar via” come si fa con un libro che sarà necessario rileggere perché la prima lettura è stata vorace, troppo veloce per la voglia di vedere ciò che accadrà. Non è questo il caso.
E infine la sorpresa: ho iniziato a scrivere la recensione convinta che avrei “confessato” il mio non piacere per questo libro, un po’ a disagio perché, dentro di me, sentivo anche salire un sentimento di squalifica per quest’opera: e non potevo certo “stroncare”, si fa per dire, un autore come Kawabata Yasunari! Ma non riuscivo a non provare, nel leggere, un fastidioso sentore di quelli che a me parevano luoghi comuni, sparsi qua e là, nell’uso di figure retoriche, nell’uso di similitudini e metafore (ora mi chiedo se è così).
Ho iniziato a scriverne cercando di sospendere il giudizio e, con mio grande stupore, ciò che scrivevo diceva un’altra cosa da ciò che che credevo di pensare, e il libro diventava compreso; le dita sulla tastiera dicevano la verità e me la restituivano, quasi senza mia consapevolezza: un libro bellissimo, che – ora lo posso dire – potrei anche rileggere (non subito, no, ma magari ripassarlo, sì, leggerlo qua e là, alcune parti, alcuni pezzi particolarmente densi). Un libro, dunque, che richiede di essere ripensato ma che mantiene comunque, almeno per me, una forma di estraneità analoga a quella di un sogno che non arriva ad angosciare ma porta con sé il disagio del non compreso, dell’alterità non riducibile – insieme ad un senso autunnale della vita, di attesa di un inverno vicino che non può ancora vedere la nuova primavera.
E ora, sarà il tempo, saltando il secondo Nobel giapponese (1994), Oe Kenzaburo, di leggere Murakami Haruki, i cui libri, quando me li trovo in mano, in libreria, finiscono sempre riposti nel loro scaffale e lasciati, eternamene rinviati. Resta da decidere se affrontare la maratona di “1Q84” (tre volumi, più di mille pagine); ma forse farò un’altra scelta, sono attratta da “L’uccello che girava le viti del mondo”, e da “La fine del mondo e il paese delle meraviglie”, ancora non so.
Certo: Murakami Haruki appartiene ad un’altra generazione, ad un altro Giappone – in transito? Non so, dovrò leggerlo. Ora, comunque, mi attrae.
C’è, tra gli autori giapponesi, ovviamente Banana Yoshimoto, molto letta. In questo caso, credo, forse, la distanza sia quasi annullata ma non so, non ho letto nulla di questa autrice.
Ho detto che ho scelto di saltare Oe Kenzaburo, l’altro premio Nobel per la letteratura giapponese: e anche questa è una fuga.
La figura da questo autore è, per me, legata a “Note su Hiroshima”, il libro scritto diciotto anni dopo la catastrofe (come si può chiamarla così! Una catastrofe è qualcosa di naturale, o quanto meno di accidentale!) e che, come tutti i libri di questo autore, è poco tradotto e non facilmente reperibile. Tuttavia si trova; “Note su Hiroshima” è stato editato da Alet edizioni nel 2008 e si trova. Confesso e confermo che, al momento, non lo affronterò.