Quando ai libri si chiede molto

Metafisica dei tubiMi trovo di fronte ad una domanda, o forse, meglio, a un dubbio, importante: sto chiedendo, da sempre, molto ai libri, e anche se, così facendo, non ho mai subito grandi delusioni, mi chiedo se sto chiedendo troppo, a troppi libri. Occorre sapere, ma anche scegliere, che tipo di lettura si sta incontrando.

Se il leggere è piacere, attività che ha a che fare con il gioco, e lo è, questa sua funzione si accompagna ad altre funzioni. Il leggere è accompagnare il pensiero, cercare e trovare un interlocutore; la lettura è dialogo e, come in ogni dialogo che si rispetti, in esso si realizzano scambi nei quali ambedue gli interlocutori modificano il loro punto di vista e il lettore scopre che anche il libro, nella relazione con lui, cambia, dice cose diverse da ciò che aveva affermato al primo approccio, in modo categorico, in coerenza con la sua apparente natura oggettuale.

E’ nei fatti che ogni singolo lettore sia molti lettori, ma è anche importante sapere cosa si sta chiedendo a un libro anche se – avviene ogni qualvolta si incontra qualcuno e si entra in relazione – capita che l’incontro dia luogo a qualcosa di diverso da ciò che era atteso. Ed è importante, essendo necessario scegliere i propri libri, così come scegliere le persone con cui instaurare una relazione, sapere cosa si sta cercando. Pena il trovarsi, e far trovare gli altri (i nostri libri) a disagio, impossibilitati a trovarsi bene con noi, come quando organizzando una festicciola nella nostra casa, si sbagliano gli inviti e ci si ritrova con un gruppo di persone il cui insieme risulta incongruo e dà luogo a una serata sbagliata.

Mentre leggo altro sto ancora rigirandomi tra le mani Elias Canetti, dato che, sulla scorta dei brevi saggi di “Potere e sopravvivenza”, si è risvegliata la voglia di altri suoi libri. C’è il desiderio, che non avrà risposta, di inquadrare bene, collocare meglio, in una sua specificità, questo autore, mentre so che una parte non secondaria del piacere di incontrarlo sta, propriamente, nel suo essere eccentrico, in senso etimologico, un testimone del ‘900 capace di evitarne i luoghi comuni e il sistema di conferme che l’intellighenzia del secolo ha consacrato a verità, per riproporne il senso nei termini di una ricerca programmaticamente inconclusa.

Va anche detto che mi trovo, da alcuni giorni, a Berlino dove, avendo appena visitato il Museo Ebraico, mi vien da pensare che tale visita sia stata non casuale in questo momento – certo, mi è stata giusto ora consigliata, ma in precedenti occasioni non l’avevo scelta. E anche questo ha fatto somma nel disorientamento che il pensiero di Canetti porta a produrre: anche una visita ad un luogo, ad un’architettura, ad una storia, e l’impatto di un’esperienza visiva sono qualcosa che, producendo pensiero, portano poi al bisogno di trovare parole per tradurre emozioni e alla necessità di dare un ordine alle proprie riflessioni con l’aiuto di chi le parole le ha già proposte: la differenza dei supporti e dei linguaggi non cambia la funzione.

Così, mi trovo presa tra l’impegno (lo considero tale, ma non lo è necessariamente) a proporre, in questo spazio, i saggi di Canetti, il pensiero che sente la necessità di rileggere “La massa e il potere” (uno, di questi tempi, legge i giornali e può fronteggiare la grande voglia di fuga che ne deriva – verso dove? – unicamente rifugiandosi nella ricerca di un filo che consenta un barlume di comprensione, anche solo come rito di rassicurazione), e la voglia invece di rileggere qualcosa come “La lingua salvata”, il primo libro della sua autobiografia, sapendo il grande piacere di quella lettura e, ancora, la capacità di indurre riflessioni multiverso.

Nel contempo, con i pensieri su tutto questo che ronzano, mi trovo fuori casa, a vivere giornate non standard in cui il viaggio, i tempi frazionati in giorni e ore inusuali, portano a letture maggiormente contingenti, inattese, il cui ordine si decompone.

Nelle mie mani girano altri libri, rispondenti ad altri bisogni, primo tra tutti il bisogno di svago e compagnia. Prima di partire avevo fatto la mia piccola e doverosa gita in libreria, dove ho incontrato, insieme ad altro, un nuovo bel romanzo, di un autore francese alla sua prima prova, che non mi sono potuta trattenere dal leggere immediatamente: si tratta di Michäel Uras che, nel gennaio scorso, ha pubblicato per i tipi di Voland “Io e Proust”, un’auto-fiction (così la definisce il protagonista) molto seducente. Ne dirò, per ora, solo questo: per quanto mi riguarda è, in assoluto, il primo libro che presenti una <vera> scrittura maschile – sapendo di farlo? – questa è, forse solo per me, una domanda che attende risposta. Ora me lo rileggerò, è un romanzo breve, circa centocinquanta pagine, poi ne scriverò.

Ho scritto che <non mi sono potuta trattenere dal leggerlo immediatamente>: ne è stata causa la casa editrice Voland di cui mi è improvvisamente tornato alla memoria l’accattivante romanzo di Amélie NothombMetafisica dei tubi“, pubblicato nel lontano 2002. Una lettura di cui non ho perduto il ricordo: ora mi sono affrettata a recuperarne l’incipit che, sottintendendo un’attesa di gioco un po’ rischioso per il pensiero, al tempo mi aveva portato quasi a bermi il romanzo, là, sullo sgabellino della libreria; e a leggerlo pensando e sogghignando.

In principio era il nulla. E questo nulla non era né vuoto né vacuo: esso nominava solo se stesso. E Dio vide che questo era un bene. Per niente al mondo avrebbe creato alcunché. Il nulla non solo gli piaceva, ma addirittura lo appagava totalmente.”

A questo punto, il dilemma: su cosa mi fermo? Seguo la scaletta programmata – e dunque alla prossima con Elias Canetti e i saggi di “Potere e sopravvivenza”? Passo direttamente al romanzo preannunciato – “Viviane Élizabeth Fauville” di Julia Deck, editore Adelphi? – vedi un po’, ancora un’autrice francese esordiente; la rilettura eventuale di Amélie Nothomb non è tra le scelte immediate, non foss’altro perché, prima, devo per lo meno tornare a casa e prendermi il tempo che richiede. Propongo immediatamente “Io e Proust”?

Ecco tornare la domanda con cui ho aperto, che richiede una riflessione, possibilmente condivisa, che indaghi i modi dei rapporti che stabiliamo nella relazione con il libro, perché di relazione si tratta e dunque da condurre con il rispetto e il riconoscimento consapevole che richiede.