Julia Deck, “Viviane Élizabeth Fauville”, Adelphi 2014
Un romanzo d’esordio, un noir molto particolare in cui, anche se gli ingredienti del genere ci sono tutti, qualcosa, molto, non segue le vie prescritte.
La trama: una donna, Viviana Élizabeth Fauville in Hermant, manager quarantaduenne alla Betons Biron, madre di una bambina di dodici settimane, vive a Parigi in un appartamento nel quale ha recentemente traslocato dopo la separazione dal marito. Viviane è da tempo in cura presso uno psicanalista, il dr. Jacques Sergent.
A seguito di un improvviso attacco di panico, prende un appuntamento urgente, che lo psichiatra le concede con molta riluttanza; lascia la bambina addormentata e si reca allo studio del dr. Sergent dove, avendo causalmente in borsa un set di coltelli, regalo della madre e appena recuperati dalla casa del marito, uccide l’analista. Non simbolicamente, chiaro. C’è la doverosa bella pozza di sangue. Pure, niente di premeditato. Viviane rientra a casa e, al momento, dimentica. Poi ricorderà. Forse.
Ora, in ogni giallo che si rispetti ci dovrà essere un punto di vista dal quale osservare l’inchiesta che seguirà al delitto, e il lettore dovrà essere guidato ad assumere un’alleanza; tale guida sarà data soprattutto dalla voce narrante che l’autore avrà scelto di utilizzare, fondamentale per comunicare da subito il punto di vista prescritto.
Ma questo è un romanzo diverso, meglio sarebbe dire divergente, sotto questo punto di vista, e la voce narrante cambierà ad ogni cambiamento di scena modificando, per questa via, aspettative e alleanze del lettore.
Il racconto inizierà con la voce dell’autore che, parlando alla protagonista, cui darà del tu, narrerà a lei di lei.
“La bambina ha dodici settimane e il suo respiro ti culla con il ritmo calmo e regolare di un metronomo. Siete sedute su una sedia a dondolo al centro di una stanza completamente vuota”.
Ecco, la voce narrante è forse quella del regista che dà indicazioni sul personaggio alla protagonista di una pièce teatrale? che spiega all’attrice cosa deve rappresentare, come deve sentire il proprio personaggio?
Eppure no. Non è così. “Non ne sei del tutto certa, ma hai l’impressione di aver fatto, quattro o cinque ore fa, qualcosa che non avresti dovuto fare.”
Si tratta dunque di una voce interiore, che parla alla protagonista e le chiede di assumere la responsabilità di un’azione compiuta e, al momento, negata?
Il lettore segue la scena, ‘ascolta’ la voce narrante che dice, a lui e alla protagonista, cosa vedere e come interpretare ciò che vede. La voce continuerà a narrare fino a che il fattaccio sarà compiuto. E il lettore resterà inchiodato alla scena. Non lascerà il libro e i suoi brevi capitoli, che dipanano fatti e accadimenti senza fretta ma a ritmo serrato. Scena, sipario, scena.
Ma ecco, la voce narrante cambia e il lettore si trova di fronte a pagine dove un narratore esterno racconta. Terza persona singolare. L’alleanza si indebolisce.
La storia è un noir, e ci si trova a fare i conti con la Polizia, con l’“Ufficiale di polizia giudiziaria Philippot”; del quale veniamo a sapere solamente che somiglia a un Yul Brynner con gli occhi chiari, ne incontriamo la brutalità ma, al momento non sembra rappresentare una figura con la quale allearsi, è un’immagine stereotipata, non sufficiente a dirci ecco, ora dovremo seguire lui, parteggiare per lui o sperare che fallisca, vedremo, decideremo.
Nuovo capitolo, la narrazione prosegue, ci vengono riferiti fatti ed ecco, riappare la seconda persona singolare, riappare il dialogo interiore, o di qualsiasi dialogo di tratti.
Le voci narranti cambieranno ancora, nel corso della storia; si alterneranno; ci sarà anche una prima persona plurale, un ‘noi’ incongruo (noi chi? Ah, forse è ancora il regista, forse sta ancora parlando all’attrice protagonista e utilizza il noi per farle sentire il legame, stretto, fondamentale, tra la sua guida e l’interpretazione di lei). Mancherà solo, non avrebbe mai potuto esserci, la prima persona singolare.
La storia prosegue presentandoci una grande varietà di personaggi, velocemente tratteggiati, che verranno ripresi solo al momento di tirare le fila, dentro un’inchiesta che verrà condotta, in realtà, non solo ma per lo più dalla protagonista, che, di volta in volta, li incontrerà uno per uno, reciterà una scena a due, svolgendo una propria indagine in risposta ad un bisogno di conoscenza e di controllo mentre la sua vita personale si intreccia all’accadimento, avvengono fatti e intorno a lei gli avvenimenti precipitano.
Dinnanzi a noi scorrono le figure di Julien Antoine Hermant, marito di Viviane; di Gabrielle, la vedova dello psichiatra; di Angèle, l’amante del dr. Sergent, che attende un bambino; di Héloïse, la giovane rampante che ha sostituito Viviane al lavoro durante la sua assenza per maternità; di Tony Bujon, 23 anni, un paziente del dottore con la fedina penale sporca, soggetto pericoloso, di Pascal Planche di cui “tutti hanno finito per convincersi che non pensa un bel niente”. Tutti i personaggi sono dotati di una loro piccola storia personale, in cui rappresentano ruoli, modelli privi di vera soggettività. E peraltro, l’essere ‘soggetto’ era il tema che il dr. Sergent proponeva a Viviane, tema cui lei si ribellava. La voce narrante glielo ricorda.
“Soggetto. Ancora oggi non capisci che cosa significhi. (…) Avevi un marito, un lavoro, una bambina, tante cose da fare che ti tenevano impegnata dalla mattina alla sera. Ogni istante della tua esistenza era governato dalla necessità, del resto era così per tutte le altre donne, per le hostess e per il Direttore Generale della Betons Biron, per tua madre e per la bambinaia.”
I cambiamenti di voce punteggiano cambiamenti di registro narrativo, ci coinvolgono, non risultano impropri, anzi, ci facilitano un accesso nelle storie che arricchiranno il quadro, attraverso sostituzioni di scena, i cui personaggi sfileranno davanti a noi, avendo quale sfondo Parigi, le sue stazioni della metro, i percorsi, le vie, il racconto è una telecamera incorporata alla protagonista che ci porta con sé.
La chiusura è irrituale, inattesa, e totalmente dovuta. Perfetta.
Un’esperienza di lettura spiazzante. Che trattiene e che certamente indurrà a leggere subito il prossimo romanzo di questa autrice.