Pier Paolo Pasolini, 2 novembre 1975

Pier Paolo PasoliniGiorno dei Morti. A ciascuno i suoi, e ad ognuno di loro un diverso rimanere in vita, che non vale dire ‘nel ricordo’ perché non è così. Quantomeno, non è solo così, e tanti sono i modi della vita, così come tanti sono i modi dell’essere morti. Ci sono i morti vivi e i morti morti. Basta guardare i giornali, dove le morti si fanno numero.

Ci sono coloro che non muoiono, mai, pur nei limiti che il ‘mai’ porta con sé; e coloro che sono morti per qualcuno e vivono per e con altri. Senza scomodare i Grandi della storia (penso alla storia della parola, del pensiero, della fantasia, dell’immaginario), la morte di David Wallace resta, per me, senza consolazione; e mi manca, proprio nel quotidiano, la possibilità di ascoltare ancora Kurt Vonnegut parlare e raccontare altre storie; mi mancano i loro nuovi libri che non leggerò. Arrivo a rimproverarli per questo. Poi mi accorgo che mi sbaglio, sono vivi, e i nuovi libri stanno dentro quelli che ancora leggo e rileggo, e la loro voce parla, dice cose nuove alla nuova persona che ogni giorno sono io, essendo morto il mio ieri per dar vita al mio oggi. Diverso.

I bambini, che amano riascoltare sempre la stessa storia – e raccontami ancora e no, qui non dice così, leggi giusto – non sbagliano. Loro sanno.

Così, non so per quanto tempo vivranno ancora Wallace e Vonnegut, e tanti altri scrittori amici miei; sicuramente fintantoché ascolterò, nella loro voce, le nuove cose che hanno da dire, proprio a me. Finché risponderò loro. Dunque, non per sempre, no, ma è così che funziona.

Oggi, campeggia ovunque il nome di un vivente: Pier Paolo Pasolini. Di lui si dice che è un autore tanto citato quanto poco letto. Cosa che avviene, notoriamente, per i monumenti: fatto il monumento, di quel tale non se ne parla più. Se ne citano le opere. Non si leggono. Più o meno lentamente, non si pubblicano più. Magari, ci si fa sopra un convegno che dia lustro ai relatori.

Per Pasolini, credo stia avvenendo proprio questo. Mi pare tuttavia che, nel suo caso, questo avvenga secondo modalità che confermano, incongruamente, il suo non essere morto mentre si cerca, caparbiamente, di renderlo tale.

Si prova a costruirne il monumento. Quella cosa che si pone, primariamente, a sentinella dei sepolcri. Avete mai sentito che si ami un monumento? Che gli si rivolga la parola? Che lo si ascolti parlare? Talvolta avviene, sì; cosa rara. Se ne può apprezzare la bellezza; il valore simbolico.

Le parole di chi diviene monumento vengono scolpite, poche, nella pietra, perché restino, fuori dal tempo, fisse, e dunque mute. I suoi figli, le sue opere, si cerca di far sì che, attraverso quella pietra, si stacchino da lui, non ne proseguano la vita nella sua mutevolezza.

Ed ecco sorgere, nel quarantennale della morte di Pier Paolo Pasolini, questo stranissimo monumento per cui, mentre si inneggia alla sua opera, non si parla di essa ma della morte di lui – del <modo> della sua morte; di quell’assassinio che si vuole, che probabilmente è, tuttora irrisolto.

Si parla della grave perdita che quella morte, e il suo orrore, hanno portato; ed è come se si volesse dare comunicazione – erga omnes, a tutti coloro che vi abbiano interesse – che la sua morte, almeno quella, è cosa fatta.

Credo di doverlo dire: non sono una grande estimatrice della prosa di questo autore; ne ho amato i film; ne amo la poesia. Per me è stato, al tempo, un grande intellettuale e una grande voce critica nell’Italia di allora, in un momento in cui c’era un gran bisogno di una voce intellettualmente fuori dal coro e dalle appartenenze, capace di non farsi ignorare nonostante l’imbarazzo che il doverla ascoltare creava. Una voce importante, dunque, al di là del fatto che si potesse concordare sempre con quanto scriveva e operava – e la prova dell’impegno a tacitarlo, oggi, ancora, sta proprio nell’impossibile, improbabile e persino ridicola assenza di qualsivoglia critica: al suo pensiero, alle sue scelte di vita; sta nell’accordo, unanime e falso, su di lui.

Pure, non c’è dubbio, sia piaciuta o meno a me la lettura di “Una vita violenta”, di “Ragazzi di vita” (che, al tempo, ho letto – con fatica e malvolentieri: dovrei rileggerli), difficile ignorare quella prosa, o ridurne la portata.

E’ stato un grandissimo soggettista, sceneggiatore e regista. E “Mamma Roma”, così come “Accattone”, come “Il Vangelo secondo Matteo” e “Uccellacci e uccellini” per citare le opere più note, esprimono una forza, una bellezza, costruiscono e trasmettono un pensiero di un livello mai più raggiunto dalla cinematografia italiana.

Teorema” fece scattare la censura. Il processo si concluse con una sentenza di assoluzione, dopo una prima sentenza che aveva ordinato la distruzione del film.

Lo sconvolgimento che Teorema provoca non è affatto di tipo sessuale, è essenzialmente ideologico e mistico. Trattandosi incontestabilmente di un’opera d’arte, Teorema non può essere sospettato di oscenità”: il dispositivo della sentenza del Tribunale di Venezia, era il 23 novembre del 1968, salvò il film.

Ciò non impedì che stessa sorte toccasse poi all’ultimo film di Paolini, “Salò e le 120 giornate di Sodoma”, uscito dopo la sua morte (e che forse ebbe a che fare con la sua morte); anche questo fa parte delle domande irrisolte su quel 2 novembre 1975, domande inevitabili se si tiene in considerazione lo sconvolgimento che Pasolini riusciva a portare nella vita e nella società italiane.

Nella sua voce più vera e potente, Pasolini è stato un grande poeta – ancora (ma non può essere che così) non sempre alla propria altezza. Lo è stato nei suoi versi, lo è stato nei diversi linguaggi che ha usato nella sua disperata solitudine, non risolta dai molti e grandi amici che stavano al suo fianco, e nella sua insaziabile necessità di comunicare, di forzare la resistenza della società del tempo all’urgenza del suo messaggio.

Oggi lo si commemora? Non vedo (ma forse sono distratta, non ho cercato bene) nuove edizioni delle sue opere; non vedo riproposti i suoi film.

Sento, molto, parlare <su> di lui, con estrema attenzione a non mostrarlo e a non farlo parlare. Vedo citati pezzi delle sue parole, qua e là, buoni per tutti gli usi, fuori contesto. Utili a far sì che tutti ne parlino, che tutti, per sentito dire, lo apprezzino. Per far sì che nessuno risponda alla sua voce. E renderlo morto.

Chiunque sia stato ad ucciderlo, si fosse trattato pure <solo> di una banale e brutale violenza avvenuta nel contesto di una sottocultura delinquente che egli frequentava, mi pare davvero si stia continuando ad ucciderlo, e fa paura pensare che l’intento stia per aver fortuna.