Una donna racconta altre donne e altri mondi

La nave per KobeDacia Maraini,Una nave per Kobe. Diari giapponesi di mia madre”, Rizzoli 2003

Da lettrice ho sempre apprezzato, in molti romanzi di Dacia Maraini, il loro contenere, recuperare, aspetti di autobiografia familiare. Trovo che questo dia spessore al racconto senza disturbare il piacere dell’invenzione – alla fine, i suoi personaggi, le sue donne, si ergono da sé e ed è ininfluente, per l’economia della storia, l’averli rimaneggiati nella loro realtà o averne restituito l’aspetto autobiografico familiare, ottenendo tuttavia di dare alle storie, e ai personaggi, una consistenza aggiuntiva di carne e sangue.

Una nave per Kobe” non è un romanzo, è un racconto pienamente autobiografico. Come si evince dal sottotitolo, prende avvio dai diari che Topazia Alliata, madre di Dacia Maraini, tenne con regolarità, dal 1938 al 1941, arricchendone le pagine con foto, a documentazione del viaggio e della vita in Giappone dove, al seguito del marito Fosco Maraini, con la prima figlia, Dacia, di due anni, si trasferì quando lui ottenne una borsa di studio come etnologo e scelse, anche, di allontanarsi dal padre e dall’Italia, di marcare da subito quella che sarebbe stata la sua vita di studioso giramondo.

Il libro, tuttavia, è solo in parte la storia del viaggio verso Kobe, che rendiconta i porti toccati, i luoghi; e poi la storia della loro vita dentro la cultura e la lingua giapponesi; è molto poco di tutto ciò e molto, invece, di altro. Sono riflessioni sui temi della famiglia, del rapporto con la madre, con il padre; sull’essere donna, tema sempre centrale del pensiero di Dacia Maraini, in luoghi e tempi diversi; sono ricordi della sua storia personale, di incontri, di esperienze, di viaggio e di vita.

In effetti, tutto questo appare fin dall’incipit: “Cosa ho da spartire con quella bambina lontana? Ammetto che non mi importa più molto di lei. E’ morta, pazienza. Ho fatto tanta fatica a crescere che quasi la sento come una lontana nemica.”

Le sue parole trascorrono subito alla madre, di cui invece vorrebbe recuperare la giovinezza, che emerge dai diari come impegno nella cura della piccola figlia, come attenzione totale, mentre vive un viaggio entusiasmante e difficile, carico di fatiche, di disorientamento.

Attraverso i diari, Dacia recupera la figura della madre giovane, non la propria vita di bambina, di cui ‘non le importa più molto’. E ricorda, invece, il dolore che ancora sente per la perdita di quella giovinezza e ricorda ciò che le veniva detto, forse dalla tata Okachan, giocosamente maligna.

“(…) mi spiegava che dovevo dormire perché dormendo mi sarei allungata. Ma poi aggiungeva, non senza una punta di malignità, che allungandomi avrei fatto invecchiare mia madre e che questo era il giusto moto della natura: i miei piedi di bambina si sarebbero fatti grandi, robusti, e avrebbero spinto a piccoli colpi gentili il corpo di mia madre verso la vecchiaia.”

Il ricordo della madre di quel tempo è segnato dal legame della corporeità, dall’abbarbicamento al corpo della madre. Si inseriscono nel racconto – il libro, in effetti, è una conversazione, nel corso della quale gli argomenti evolvono, si spostano, si richiamano – le riflessioni sulle madri della sua famiglia: le nonne, interessanti e originali figure di cui racconta, spargendo qua e là alcune informazioni, lasciando che dalla somma emerga, se non un ritratto, quantomeno la percezione di un rapporto, con i mariti, con i figli: un’essenzialità che si traduce in riflessioni sulla famiglia, sulla maternità, sulla vita femminile, sulle regole e sulla rottura delle regole.

Ci sono le nascite delle sorelle, in quel periodo giapponese; c’è il tema dell’”onorevole pancino” della madre che, nell’attesa di Yoki, la secondogenita, non partecipava più, con lei e il padre, alle loro escursioni; c’è il suo ‘farsi maschio’, dentro un legame che diventa privilegiato con il padre.

Sarà un legame segnato da caratteristiche di riparazione per l’assenza di un figlio maschio, che si evidenzierà con la nascita della secondogenita Yuki e poi della piccola Antonella, nata nel ’41, poco prima che il diario della madre si interrompa, necessariamente, per l’internamento, dal ’41 al ’43, della famiglia, fortunosamente senza che le figlie venissero separate dai genitori, in un campo di concentramento giapponese, causa il rifiuto da parte di Fosco e Topazia di aderire alla Repubblica di Salò. C’è Hiroshima.

Il racconto lascia spesso, come avverrebbe in un conversare, il tempo giapponese; si sposta, nel tempo e nei luoghi della sua vita, a recuperare e correlare storie familiari, riflessioni sul legame che ha sempre unito lei e le sorelle anche quando le scelte di vita le hanno portate a vivere lontane, in parti diverse del mondo.

Dal legame tra lei e le sorelle recupera il legame che ha legato sua madre alla sorella Orietta, anche in questo caso senza che la distanza fisica sia mai intervenuta a spezzarlo; restituisce il ricordo dello zio Gianni Guaita, marito di Orietta, “alto, magro, taciturno, che ha scritto dei bei romanzi, degli apologhi intelligentissimi in forma teatrale e ha avuto la passione per la politica. Ha partecipato con coraggio e abnegazione alle grandi lotte contadine per la terra nella Sicilia degli anni Cinquanta, è stato un sindacalista coraggioso, ha combattuto, rischiando la vita, contro la mafia, salvandosi spesso dal macello, sia per la sua enorme ingenuità che gli stessi mafiosi consideravano con stupore, sia per la sua arrischiata strategia di dire sempre la verità che l‘ha trasformato, in quelle terre e in quel periodo, in un alieno” (qui)

Il ricordo porta ad altri ricordi; al mondo siciliano, in particolare al mondo femminile di un tempo; alle regole di una buona società in cui “Tutto si poteva fare purché fosse coperto dalle spire di un segreto assoluto e spietato. La perdita della verginità, l’adulterio, i traffici sottobanco, il raggiro delle leggi, a ogni cosa si poteva trovare rimedio, purché l’immagine del ‘decoro’ restasse immutata e immutabile”.

Tutto questo mentre in famiglia, la sicilianità si coniugava con una aristocratica, soprattutto colta, alterità.

E si ritorna alla vita della generazione precedente, alle storie delle istitutrici inglesi che, giovani ragazze sole, prive di sostegni, se non quello di una buona educazione, spesso senza un futuro certo, si trovavano a doversi integrare in quel mondo tanto diverso, e ci riuscivano, assicurando un prezioso contributo al formarsi di quella preziosa alterità.

Tante cose, in questa narrazione, tanti spunti, riflessioni, tutte importanti. Che scorrono con leggerezza.

Ciò che colpisce, tuttavia, è qualcosa che esula dal libro e dai suoi pregi. Ed è la coralità e la condivisione con cui le storie familiari vengono narrate, che si percepisce e che consente alla figlia di ricevere dal padre, nel frattempo deceduto, i diari della madre, che ne avrebbe dovuto essere la ovvia destinataria, essendo tuttora vivente e, come segnalato in un precedente post, autrice, a 102 anni, di “Love Holidays. Quaderni d’amore e di viaggi”, libro di memorie della propria vita con Fosco Maraini (da cui peraltro si separerà) sulla base di diari, foto, documenti della loro vita in comune recuperati dalla seconda moglie di Fosco Maraini, dopo la morte di lui. Prefato peraltro dalla figlia Dacia che, sui diari della madre, scrive questo libro. Intreccio curioso.

Dacia conclude – fermando il resoconto del periodo giapponese al momento dell’internamento della famiglia, dell’esperienza estrema vissuta, e degli anni che seguirono, solo accennati, di un dopoguerra segnato dalle ristrettezze del dopoguerra in un’Italia distrutta – consegnando alla sorella Toni il compito di raccontare questa parte della storia, perché sa che ci tiene.

Ecco. In questo libro il lettore trova il piacere di partecipare a una ricca, corposa conversazione che sottende molte voci, in cui tutti riconoscono all’altro il diritto-dovere di raccontare, un diritto-dovere a non disperdere una ricchezza.