Poi un verso di ieri richiama memorie. Ed è oggi

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Il Gigante nelle Cinque Terre. Fotografia di Peter Forster

Al mare (o quasi)” – Eugenio Montale

Non so il perché, in effetti, ma nello scrivere l’ultima chiacchierata, nel darle un titolo, mi è echeggiata la chiusa di una poesia della vecchiaia di Eugenio Montale. Scritta al mare, Monterosso alle Cinque Terre, probabilmente. E comunque io lo immagino sempre in quel luogo, oggi ancora devastato dall’alluvione del 2011, temo.

Hic manebimus se vi piace non proprio / ottimamente ma il meglio sarebbe troppo simile / alla morte (e questa piace solo ai giovani)

Fuori contesto? Non so. Come balzano alla mente alcuni richiami?

La poesia parla ad ognuno di noi nel suo momento e per me questo poeta, la sua cosiddetta ‘teologia negativa’, ha una voce invece positiva, capace di accogliere il negativo delle cose e restituirlo trasformato, senza farsene travolgere. Non so bene ma, mi pare, la negatività delle nostre ‘teologie’ assomiglia quasi sempre alla forza che non si possiede (o si sceglie di non usare) per accogliere il dolore, respingendo per questa via pure le gioie.

Così, travolgendo il senso di questi versi – forse, solo forse, perché resta sempre che il senso è, necessariamente, quello che emerge in chi legge, e nel momento in cui legge – mentre giocherellavo con il pensiero del piacere che si prova nell’abitare i linguaggi che ci sono propri e assaggiare, nel contempo, nuovi linguaggi; con il piacere del derapare, nel percorso, per fronteggiare l’incontro con la curva, con il cambiamento, e mantenere la direzione, ho scelto di accoglierli, come si accoglie una sorpresa.

Ora penso che non è solo così. Le suggestioni vengono anche da altrove. Si legge, si vive la giornata e le cose che ci porta, si ascolta il telegiornale, si parla d’altro, si legge altro, si fanno incontri. E niente è separato.

Vengono richiamate memorie, delle storie piccole che ci riguardano, delle fantasie, della Storia, quella su cui non abbiamo potere – ed è fragile anche il potere che sentiamo di avere sulle conseguenze, sull’oggi, per riuscire a trarne, ancora, qualcosa di buono; è fragile, e ci lascia già stanchi prima ancora della prova. Si cozza, così, contro qualcosa che era già stato detto, sentito, presentito, e certo i modi del suo essere vero allora non ci hanno lasciato immaginare i diversi modi del suo essere il nostro oggi.

Non so se faccia bene, sempre, frequentare la poesia, nel suo atroce realismo, travestito di dolcezza, sia pur delusa, fin dall’inizio, sulle possibilità, su sé, sul mondo.

‘Teologia negativa’ dicevano, della poesia di Montale. Io non lo so, ma certo oggi, tramutando il senso della connotazione, il divino si presenta ai nostri giorni come paura; e ‘i terremotati’ della vita, nei tanti modi in cui questa colpisce, vagano tra il rifiuto del loro bisogno e una ricchezza tutt’intorno che si traduce in rifiuti – ecco, il senso della parola che cambia, e che tramuta, rende uguale, il rifiuto del dire di no alla produzione di immondizia, il rifiuto della cura delle cose, degli altri, di noi stessi   – in un mondo dove muoiono i passeri e tutto diventa “la musa del nostro tempo la precarietà“. Diventa ‘precario, affidato al nulla, il senso stesso dello stare al mondo – basta che avvenga piano, lentamente, così da permetterci la finzione del non vedere.

Strano come i pensieri portino a convergere, mutando di senso (ma non del tutto) ciò di cui si sta parlando. Avevo questo in mente, e non so dire da cosa fosse emerso, nella mia giornata, quando – ma si parla sempre d’altro, io credo – ho usato le vecchie abusate parole del centurione, l’<hic manebimus> di scolastica memoria, D’annunzio che fa proprio il motto nell’avventura fiumana (e non era neanche più giovane, neppure c’era la scusante, davvero eccessivo!). Memorie frastagliate da cui sono emersi questi versi, forse l’immagine, diversa, sempre uguale, dei giovani che amano la morte, la ‘bella’ morte, e fa niente quale sia il dio o il credo o il sogno. La morte che non piace ai vecchi.

Loro sanno. E sono disposti a restare, a scendere a patti. Ed è meglio non dire altro. E ascoltare.

 

EUGENIO MONTALE

AL MARE (O QUASI)

L’ultima cicala stride
sulla scorza gialla dell’eucalipto
i bambini raccolgono pinoli
indispensabili per la galantina
un cane alano urla dall’inferriata
di una villa ormai disabitata
le ville furono costruite dai padri
ma i figli non le hanno volute
ci sarebbe spazio per centomila terremotati
di qui non si vede nemmeno la proda
se può chiamarsi così quell’ottanta per cento
ceduta in uso ai bagnini
e sarebbe eccessivo pretendervi
una pace alcionica
il mare è d’altronde infestato
mentre i rifiuti in totale
formano ondulate collinette plastiche
esaurite le siepi hanno avuto lo sfratto
i deliziosi figli della ruggine
gli scriccioli o reatini come spesso
li citano i poeti. E c’è anche qualche boccio
di magnolia l’etichetta di un pediatra
ma qui i bambini volano in bicicletta
e non hanno bisogno delle sue cure
Chi vuole respirare a grandi zaffate
la musa del nostro tempo la precarietà
può passare di qui senza affrettarsi
è il colpo secco quello che fa orrore
non già l’evanescenza il dolce afflato del nulla
Hic manebimus se vi piace non proprio
ottimamente ma il meglio sarebbe troppo simile
alla morte (e questa piace solo ai giovani).

(da: Quaderno di quattro anni, Mondadori, 1977)